XXIV domenica Tempo Ordinario (11 settembre 2022)

“O Dio… fa che sperimentiamo la potenza della tua misericordia, per dedicarci con tutte le forze al tuo servizio”.

La richiesta riguarda noi: non abbiamo chiesto a Dio di manifestare verso di noi “la potenza della sua misericordia” , ma che “noi sperimentiamo (ci rendiamo conto, possiamo beneficiare…) la sua potente misericordia. La richiesta ci ricorda che non basta che Dio sia misericordioso, che agisca con misericordia verso di noi, se noi non ci rendiamo conto di questa misericordia, non acconsentiamo all’azione di Dio.

La richiesta inoltre non è fine a se stessa, ma connessa con un esercizio generoso del servizio a Dio (“con tutte le forze”).

L’apostolo Paolo, nella narrazione autobiografica a Timoteo proposta dalla seconda lettura (1Tm 1,12-17), mostra questa stretta connessione tra il suo servizio a Gesù Cristo, che svolge con decisione (si sente “forte”) e l’esperienza personale della misericordia di Gesù Cristo. L’Apostolo non fa sconti nel parlare di sé, la sua è un’autopresentazione impietosa: bestemmiatore, persecutore, violento e, in conclusione, il primo dei peccatori; non è reticente nel dichiarare che Gesù ha avuto, nonostante quello che era, fiducia in lui quando lo ha “messo al suo servizio”, nel riconoscere che gli è stata “usata misericordia”, che con lui “la grazia del Signore ha sovrabbondato”.

Il racconto evangelico (Lc 15,1-32) ci documenta cosa succede quando la potente misericordia di Dio non è riconosciuta. Gesù, rimproverato dai farisei perché, non solo non allontana i pubblicani e i peccatori che “si avvinavano a lui per ascoltarlo”, ma addirittura “mangia con loro”, racconta la parabola del padre e dei due figli.

Gesù e i suoi avversari concepiscono Dio in modo diverso. Per gli scribi e i farisei c’è radicale incompatibilità tra Dio e i peccatori: Dio non prova simpatia alcuna per un peccatore e non vuol avere nulla a che fare con lui. Per Gesù invece Dio si avvicina al peccatore con grande misericordia e amore; non solo non rompe con lui, ma va a cercarlo.

Gesù propone la sua immagine di Dio, l’immagine che Lui, il Figlio, ha acquisito all’interno della vita trinitaria. Il fatto che i peccatori si separino da Dio, rompano con lui, non significa che perdono valore ai suoi occhi, che vengono allontanati dal suo cuore. Dio continua ad accompagnare col suo amore coloro che se ne sono andati dalla sua casa, dalla comunione con Lui, perché restano figli ai suoi occhi. Da questa rivelazione di Dio emergono importanti conseguenze per la nostra esistenza di discepoli. Anzitutto l’esperienza del peccato, la consapevolezza di essere peccatori non deve suscitare in noi scoraggiamento e paura, perché continuiamo, anche nel nostro peccato, a essere amati da Dio, a essere ospitati nel suo cuore.

Il Dio che Gesù ci fa conoscere ha il volto del Padre che ci viene incontro mosso da un amore che mai viene meno, per prendersi cura di noi, perché comprendiamo che la vita non fiorisce lontano da Lui, dal suo amore (in un “paese lontano”), perché non stiamo con Lui come servi, che eseguono gli ordini in vista di una retribuzione, ma da figli che sanno di possedere già con Lui un’eredità grande.

Questo amore ci ricupera a noi stessi (ci riscopriamo figli) e ci ricupera all’altro (lo riscopriamo fratello). E’ un amore che sorprende perché non si lascia misurare né dalle nostre richieste (come il figlio minore) né dalla nostra giustizia (come il figlio maggiore), perché continua a custodirci come figli.

La consapevolezza dell’amore misericordioso e fedele di Dio nei nostri confronti deve incoraggiare la nostra conversione, la nostra presa di distanza dal peccato e una disponibilità fiduciosa a Lui, alla sua volontà.

Infine, se questo è l’atteggiamento di Dio, non abbiamo alcun diritto di diventare giudici implacabili di chi sbaglia, commette il male, non possiamo rifiutarlo, emarginarlo, ma siamo impegnati ad assumere lo stesso atteggiamento di Dio e coltivare nel cuore gli stessi suoi sentimenti.