Il testo di S. Paolo appena proclamato (2Cor 4,14-5,1) si apre e si chiude con due affermazioni che costituiscono il patrimonio prezioso, il cuore, della fede cristiana. L’Apostolo, in apertura, rivolgendosi a cristiani di Corinto, esprime la propria convinzione che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, Dio Padre, «risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi»; in chiusura rivela di sapere che «quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo dalle mani di Dio una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli».
Le due affermazioni parlano del nostro futuro, quello che Gesù, nella preghiera ha chiesto al Padre l’ultima sera trascorsa con i discepoli: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato, siano anch’essi con me, dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,24).
Gesù chiede al Padre, che lo ama ancora prima della creazione del mondo e che sarà l’autore della sua risurrezione, come scrive l’apostolo Paolo, di accogliere i suoi discepoli, presso di sé, nella sua dimora, che non è provvisoria come la “tenda” della nostra esistenza sulla terra, ma “dimora” definitiva; chiede di avere accanto a sé i suoi amici, che il Padre gli ha affidato e che lo hanno riconosciuto come mandato da Lui, perché siano nella condizione di condividere con lui l’amore ricevuto dal Padre, ancora prima che il mondo esistesse.
Sapere, essere convinti del futuro che ci attende, consente a S. Paolo di non arrendersi allo scoraggiamento di fronte alla vita che viene meno (l’Apostolo parla del «nostro uomo esteriore che si va disfacendo») e di considerare le tribolazioni che sperimentiamo nella vita, come peso sostenibile (“ momentaneo e leggero”) e capace di procurarci una quantità smisurata ed eterna di gloria.
L’Apostolo ci segnala una sproporzione tra le tribolazioni della vita e la situazione gloriosa che ci attende alla nostra morte; parla chiaramente di peso delle tribolazioni, non le nasconde, le riconosce, però non ne resta vittima, perché il suo sguardo – quello che la fede gli offre – va oltre l’orizzonte della vita sulla terra (“le cose visibili”), per approdare a quello che ancora non vediamo (“le cose invisibili”), ma che ci è garantito dalla preghiera di Gesù al Padre.
Le prime parole del testamento spirituale dicono bene come don Giuseppe ha vissuto la sua lunga esistenza sulla terra (per 91 anni), come ha svolto per 71 anni il suo intenso ministero: «Alleluia! La vita è una festa. Il Signore mi ha chiamato all’eterno Alleluia e all’eterna festa. Lode, onore, ringraziamento, benedizione a Te Signore Gesù! “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo”… lo ripeteremo per l’eternità». Sono parole di una persona contenta di vivere, di un prete contento del proprio ministero, perché sa di essere invitato a una festa, quella della vita risorta, condivisa con Gesù, che non avrà mai fine. L’Alleluia è il canto della Pasqua, della vita riscattata dal male, liberata dalla paura della morte.
Le parole del testamento ci assicurano che “l’Alleluia! La vita è una festa”, con cui don Giuseppe avviava e concludeva gli incontri con le persone, non era un modo di dire, uno slogan, ma esprimeva bene quello che per lui era il tesoro prezioso della sua esistenza e del suo ministero.
In questi tempi nei quali il “peso delle tribolazioni” della vita e del ministero non appare leggero e, spesso, nemmeno momentaneo, don Giuseppe ci sollecita a fissare lo sguardo e a tenere aperto il cuore su quell’orizzonte più ampio che Gesù Cristo ha inaugurato con la sua morte e risurrezione. Non per sottrarci alle fatiche della vita e del ministero, ma per abitarle con la speranza che non delude, perché garantita e conservata dal Signore Gesù per noi. Una speranza che ci consente di essere persone serene nelle prove della vita, attente alle sofferenze di chi in tanti modi si trova in difficoltà e chiede aiuto, solidarietà.
Don Giuseppe, ora che puoi “partecipare all’eterno Alleluia e all’eterna festa a cui il Signore ti ha chiamato”, accompagna la nostra Chiesa di Senigallia, perché sia una Chiesa che testimonia con gioia e con tenacia che nella partecipazione alla Pasqua di Gesù sta la destinazione della nostra vita, una Chiesa che non si chiude in se stessa, ma si fa sempre più attenta e vicina alle persone, soprattutto a quelle maggiormente in difficoltà; resta accanto alle tante persone che hai incontrato e accolto con il tuo Alleluia!, perché le molte tribolazioni della vita non offuschino nel loro cuore l’orizzonte ampio e pacificante della speranza.