XXXIII domenica Tempo Ordinario (13 novembre 2022)

“Finché c’è vita c’è speranza” e ancora “la vita continua”. Sono considerazioni che la sapienza popolare propone, soprattutto a fronte di circostanze, di avvenimenti dolorosi, che ci feriscono, come può essere la morte di una persona cara. C’è del vero nei due detti appena citati. Entrambe le considerazioni, però, hanno bisogno di essere integrate, completate. Se è vero che “finché c’è vita c’è speranza”, è altrettanto vero che “finché c’è speranza c’è vita”, è possibile vivere. E, se è vero che “la vita continua”, anche dopo un tragico avvenimento, è altrettanto vero che senza una speranza forte, più forte della sofferenza e dello smarrimento provocati da avvenimenti dolorosi, la vita corre il rischio di perdere il proprio slancio, di non risultare più carica di quelle promesse buone, che restano tali anche nelle situazioni negative e che rappresentano una buona ragione per vivere e non semplicemente lasciarsi vivere o sopravvivere.

L’integrazione delle due considerazioni popolari ci rinvia alla speranza, alla decisività della speranza per la nostra vita e ci ricorda una verità universale: senza una speranza forte non è possibile immaginare, condurre un’esistenza bella, buona e felice. Due domande.

La prima: la mia esistenza, quella che sto conducendo ora, a quale speranza è ancorata? Quella che sto coltivando è una speranza forte, capace di quella pazienza che non va confusa con la rassegnazione agli avvenimenti negativi, nell’attesa che la situazione cambi, che mi consente di non perdere la serenità a la fiducia?

La seconda: è disponibile una speranza di questa portata o dobbiamo rassegnarci a fare affidamento alle speranze che abitano le nostre giornate, sostengono i nostri desideri, speranza preziose, ma anche fragili, in difficoltà quando la vita ci mette alla prova?

Nella preghiera che abbiamo rivolto a Dio, “principio e fine di tutte le cose”, prima di metterci in ascolto della sua parola e della parola di Gesù, si fa riferimento alla “speranza del suo regno”, che non viene meno nella vicende della vita, non solo in quelle liete, ma anche in quelle tristi e tragiche.

In questa preghiera abbiamo chiesto a Dio di “tenere fissa (forte, resistente alle prove della vita) quella speranza, perché è nostra convinzione (“siamo certi”) che se resteremo aperti, ancorati (“nella nostra pazienza”) a questa speranza, “possederemo la vita”, non solo quella che Dio, “principio e fine di ogni cosa” desidera offrirci, ma anche quella che stiamo vivendo, nella quale s’intrecciano vicende liete e tristi e dove può accadere che le vicende tristi sono di gran lunga più numerose di quelle liete.

A che cosa si riferisce la “speranza del regno di Dio” di cui parla la preghiera? Non si tratta tanto della speranza legata a un luogo, a una circostanza, ma a una persona, a Gesù, il Figlio di Dio, che per quanto ha detto e compiuto, rappresenta una speranza affidabile per la nostra esistenza e si offre come fondamento forte alla speranza che ognuno di noi coltiva per sé, per la propria vita e per la vita delle persone che ci sono care.

Gesù stesso, nel vangelo appena proclamato (cfr Lc 21,5-19) si presenta come colui che è in grado di dare speranza, di sostenere chi è messo alla prova proprio a motivo della fede in lui, della decisione di riconoscerlo come speranza affidabile per la propria vita. Sempre nel vangelo Gesù ci mette in guardia nei confronti dei “molti” che si presentano come garanti di una speranza sicura nelle confuse e drammatiche emergenze della vita e della storia (“non lasciatevi ingannare”).

Al Signore chiediamo per noi di poter fare affidamento su una “buona” speranza che consenta a ciascuno di noi e alle persone che ci sono care di godere pienamente nelle “vicende liete della vita” e di non soccombere di fronte a quelle vicende tristi che ci affliggono. Ma chiediamo anche di riconoscere in Lui la speranza che non delude.