La preghiera che introduce l’azione liturgica, che non è la celebrazione dell’Eucaristia, ci rivela la ragione ultima della morte di Gesù sulla croce e la ricaduta di questa morte nella nostra vita.
Gesù muore sulla croce, condanna infame e infamante, per “liberarci dalla morte, eredità dell’antico peccato trasmesso a tutto il genere umano”. A ricordarcelo è anzitutto il profeta Isaia (prima lettura 52,13-53,12), il quale parlando del “servo di Javeh” scrive che «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori (la morte rappresenta il culmine delle nostre sofferenze e dei nostri dolori)…Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità».
Gesù, diversi secoli dopo, nell’ultima Cena parlerà ai discepoli del «suo sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati» (Mt 26,28) e Pietro, alcuni anni più tardi, scriverà che «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (1Pt 2,24).
Gesù muore per gli uomini che “vivono per il peccato”, vittime e complici delle loro iniquità (ancora il profeta Isaia: «Noi tutti eravamo sperduti come un gregge»), cioè del male (“l’antico peccato”) che aggredisce la loro vita (la Colletta parla di un male ereditato, del quale ne siamo vittime), cui viene consentito di entrare nel nostro cuore e d’interferire nelle nostra vita (per questo possiamo diventarne complici).
Non basta però il riferimento ai peccati degli uomini, ai nostri peccati, per spiegare pienamente la morte di Gesù, del Figlio di Dio. A spiegare questa morte è prima di tutto la decisione presa da Dio di “reagire” ai peccati degli uomini, ai nostri peccati, né con l’indifferenza di chi non se ne interessa, né tanto meno con il risentimento di chi si sente offeso e “fa pagare” l’offesa ricevuta con delle ritorsioni, ma con l’amore che patisce, non per l’offesa ricevuta, ma per i “danni” (tanti e drammatici. E la morte occupa il primo posto) che i peccati provocano nella vita degli uomini, nella nostra vita.
La ricaduta della morte di Gesù, il Figlio di Dio: «rinnovaci a immagine del tuo Figlio».
Proprio perché è l’amore di Dio a spiegare compiutamente la morte di suo Figlio, il “frutto” di questa morte non è la semplice “rimozione” dei nostri peccati, ma un “rinnovamento” di noi stessi, che ha come esito una nuova “immagine” (identità) degli uomini, di noi stessi, quella offerta dal Figlio (“a somiglianza del tuo Figlio”). Si tratta di una “pasqua”, di un passaggio: dalla condizione “dell’uomo terrestre” (prigioniero e complice del male, autore dei peccati, delle iniquità, “antagonista” di Dio e incapace di comunione con gli altri) alla condizione “dell’uomo celeste” (quella del Figlio, nel quale il Padre si riconosce pienamente perché ricrea quella comunione [alleanza] con Lui e crea comunione tra gli uomini).
Al cuore dell’azione liturgica del Venerdì santo sta l’adorazione della croce (più precisamente del Figlio di Dio crocifisso), preceduta da una acclamazione, ripetuta tre volte, che indica nell’uomo appeso alla croce “il Cristo, Salvatore del mondo”. Andremo davanti al Crocifisso per dire la nostra gratitudine, a Dio Padre perché non ci ha abbandonato e non ci abbandona ai nostri peccati, a Gesù, il Figlio di Dio crocifisso perché ha “preso e continua a prendere su di sé le nostre iniquità”.
Lo faremo, accogliendo l’invito dell’Autore della Lettera agli Ebrei, ascoltato nella seconda Lettura (Eb 4,14-16; 5,7-9): «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia [la croce] per ricevere misericordia e trovare grazia».