Corpus Domini (11 giugno 2023)

Uno dei segnali più indicativi e inquietanti di alcune malattie che progressivamente devastano la nostra persona e la nostra vita, è la perdita della memoria. Non ricordiamo più il nome delle persone, i loro volti, gli avvenimenti più significativi della vita, nostra e dei nostri cari. Perdere la memoria è come tagliare le radici della vita; e quando si tagliano le radici la vita non cresce, si blocca, si spegne.

Questo succede anche quando a perdere la memoria, a dimenticare gli avvenimenti più significativi, decisivi,  della propria storia, è un popolo, una comunità. Un popolo “smemorato”, un popolo che abbandona i propri riferimenti sorgivi, che è senza memoria, perde la propria vivacità, la propria creatività.

Mosè, come abbiamo ascoltato nella prima lettura (Dt 8,2-3.14b-16a) vuole scongiurare questa deriva del popolo d’Israele, ormai giunto alla terra promessa, la terra della libertà; per questo raccomanda al popolo di “ricordare”, di “non dimenticare” quanto il Signore ha compiuto a suo favore in un momento decisivo della sua vita, il lungo e impegnativo cammino nel deserto per raggiungere la terra della libertà. Tra quanto deve ricordare, che non deve dimenticare, c’è il pane che ha gli ha permesso di non soccombere nel deserto, un pane sconosciuto, che il popolo non si è procurato con le proprie mani, ma che ha ricevuto da Dio stesso. La provenienza di questo pane ricordava al popolo che «l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore».

Anche Gesù nel vangelo, appena proclamato (Gv 6,51-58), parla di un pane alla folla che il giorno prima aveva sfamato e che lo stava cercando per ricevere ancora il pane. Si tratta, anche per la folla di un pane sconosciuto, perché “discende dal cielo”, che Lui è in grado di offrire, che è Lui stesso, la sua vita donata, offerta. Un pane che, a differenza di quello che hanno mangiato i padri d’Israele, gli antichi esuli, nel deserto, è in grado di garantire “la vita eterna” (la vita pienamente liberata, definitiva) e la risurrezione, al termine della nostra esistenza sulla terra (“nell’ultimo giorno”).

Gesù non si limita a parlare di questo pane che ci viene offerto, che viene da altrove rispetto alla nostra intraprendenza (“dal cielo”), ci indica anche come beneficiare di questo dono: accoglierlo con il gesto concreto del pasto («se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»). Gesù precisa poi che questo pane offerto e che noi siamo invitati a mangiare è “la sua carne per la vita del mondo, è il suo corpo donato (“la sua carne e il suo sangue”).

L’Eucaristia è Gesù che si offre a noi come il pane per il cammino della nostra vita, un cammino che spesso assomiglia alla attraversata di un deserto pericoloso, come lo descrive Mosè nella prima lettura (“un deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua”), dove non riusciamo a procuraci da soli il pane di cui abbiamo bisogno per non soccombere (il pane dell’amore, della giustizia, della libertà, del senso della vita).

Nella Colletta abbiamo chiesto allo stesso Signore Gesù di aiutarci “ad adorare con viva fede il mistero del suo Corpo e del suo Sangue, per sentire sempre in noi i benefici della redenzione”. La “viva fede” che abbiamo chiesto ci impedisce di dimenticare quanto il Signore ha compiuto per noi (“ha dato la sua vita per noi”), di non ricordare che Lui, a differenza dei tanti pani che cerchiamo di procurarci con le nostre mani per non soccombere nel cammino della vita; è in grado di farci apprezzare il pane che sazia la nostra fame e che ci apre al futuro della vita risorta. Una fede, inoltre, che ci conduca a superare le tante riserve che ci impediscono di accostarci alla mensa della Parola, del Corpo e del Sangue di Cristo, di “mangiare” questo pane di vita, che ci consente di “sentire in noi i benefici della redenzione” portata dal Gesù con l’offerta della sua vita.

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