XIV domenica Tempo Ordinario (9 luglio 2023)

Nella Colletta della Messa la richiesta a Dio, che “si rivela ai piccoli e dona ai poveri l’eredità del suo regno (la vita riscatta dal male che la avvilisce) di “renderci miti e umili di cuore, a imitazione di Cristo suo Figlio”, l’abbiamo motivata con parole a dir poco sorprendenti, se non addirittura imbarazzanti: “perché, portando con lui (Cristo, il Figlio di Dio) il giogo soave della croce, annunciamo al mondo la gioia che viene da te (il Padre)”.

L’imbarazzo è provocato dall’abbinamento tra la croce, presentata come “giogo soave”, e la gioia; imbarazzo perché nel nostro immaginario la croce non appare per nulla “giogo soave”, in quanto evoca sofferenza, disagio. Utilizziamo spesso, infatti, il termine croce/i per denunciare situazioni, avvenimenti, della vita che provocano dolore, sconcerto e che impediscono un’esistenza serena.

A invitare a “prendere il suo giogo su di noi” è Gesù stesso. I destinatari del suo invito sono proprio le persone meno felici, perché “stanche e oppresse” dalle tante croci della vita. Gesù accompagna il suo invito con una promessa: “troverete ristoro per la vostra vita”.

Gesù prende a prestito l’immagine del giogo leggero dal mondo agricolo, dove il giogo era l’attrezzo posto sulla schiena di due animali (generalmente due buoi) che trascinavano nel campo l’aratro. L’attrezzo se impediva la libertà nei movimenti dei due animali (per questo risultava un giogo), consentiva però di distribuire, di condividere la fatica del lavoro (per questo poteva risultare leggero).

Gesù si rivolge a chi patisce la fatica, l’oppressione dell’esistenza e li invita a portare il suo giogo, cioè ad accoglierlo, a dare ascolto a lui, alla sua parola, a imparare da lui ad abitare la vita con le sue prove, con le sue croci.

A garanzia dell’invito Gesù parla di sé come persona “mite e umile di cuore”. E’ la prima parte del vangelo, appena proclamato, (Mt 11,25-30) a fornirci la chiave interpretativa della mitezza e della umiltà di Gesù.

La mitezza di Gesù ha origine dalla sua relazione con il Padre, nei confronti del quale riconosce una dipendenza che non lo infastidisce, anzi gli dà serenità anche nei momenti più deludenti del suo ministero (come ci raccontano i vangeli) e più drammatici della sua vita (come accade sulla croce).

Gesù sa che la propria vita è custodita dalle mani del Padre che lo ama, che ha fiducia, si riconosce in lui; anche nei momenti di difficoltà, di crisi, di sconfitta, può custodire questa mitezza che tiene lontano l’ira, il risentimento, la protesta, che non si arrende alla rassegnazione, allo scoraggiamento amaro, perché ha fiducia in Dio, nel suo modo di agire. E’ proprio questa fiducia che gli consente di scorgere i segni di speranza anche nelle situazioni negative, problematiche che vive, per i tanti rifiuti ricevuti.

Le parole di Gesù ci liberano dall’imbarazzo di vedere associate croce e gioia, perché accoglierlo, procedere con lui accanto che condivide con noi il percorsi della vita, con le sua croci, i suoi pesanti “gioghi”, non solo ci ristorerà, ma consentirà a noi di essere testimoni nel mondo della gioia della vita risorta che il Padre ha donato a Cristo, suo Figlio e che vuole regalare anche noi, come scrive l’apostolo Paolo ai cristiani di Roma nella seconda lettura della Messa (Rm 8,9.11-13: “Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi”).

Essere testimoni di questa gioia in un mondo che ritiene il giogo di Gesù troppo pesante, opprimente, da portare e che si trova però a subire, drammaticamente, altri “gioghi” che non danno alcuna serenità né gioia all’esistenza.