Il vangelo proclamato all’inizio dell’Avvento (Lc 21,25-28.34-36) ci sorprende, perché sembra andare controcorrente rispetto alla mobilitazione avviata ormai da giorni per creare quella “atmosfera natalizia”, che almeno per qualche giorno dovrebbe prendere il posto del clima pesante che ci accompagna in questi tempi. Nella considerazione di molti il tempo che precede il Natale è apprezzato per la possibilità che offre di riscattare la nostra esistenza dalla noia che la segna e dalle tante amarezze che la affliggono. Lo è anche nella considerazione dei mezzi pubblicitari, impegnati a segnalarci con tanta insistenza le tante cose che possono renderci sereni, felici in occasione del Natale. La sorpresa, se ancora si può parlare di sorpresa, è che da tempo non si tiene più in alcuna considerazione chi è veramente titolato a offrire serenità e speranza. Per dirla con una battuta: facciamo festa dimenticandoci del Festeggiato, o, al massimo, confinandolo nel presepio, che almeno per alcuni giorni garantisce in tante case la presenza di un segno religioso.
La parola di Dio percorre una strada diversa per offrirci le ragioni di una serenità, di una speranza che non ha il respiro corto di alcuni giorni, ma che si distende per il resto dei giorni.
Il profeta Geremia nella prima lettura (Ger 33,14-16) ci parla di una promessa che il Signore intende onorare, la promessa di una persona (“un germoglio giusto”), in grado di operare la giustizia sulla terra. Sarà proprio l’azione di questa persona che darà serenità (“Gerusalemme vivrà tranquilla”).
Gesù, nel vangelo (Lc 21,25-28.34-36), dopo aver delineato uno scenario inquietante, ma realistico, nel senso che rappresenta quanto accade nel mondo e tra gli umani, parla della sua venuta, come Figlio dell’uomo, come colui cioè che assicura la liberazione. Grazie a questa presenza liberante lo scenario cambia ed è possibile non restare più schiacciati dalla paura (“alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”).
Gesù ci rivolge poi un duplice invito. Con il primo raccomanda la vigilanza su noi stessi. “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita…”.
Il senso dell’invito a vigilare: evitare che il cuore si appesantisca, cioè cerchi il proprio riposo nello stordimento (ubriachezze) e in un darsi tanto da fare (affanni della vita) che servono per non pensare. Una ricerca destinata a fallire perché l’uomo si riposa e gioisce solo in ciò per cui è fatto («Riposeremo in te nel sabato della vita eterna», S. Agostino) e si lascia trascinare in un modo di gestire gli impegni della vita che toglie serenità e lucidità nel valutare il valore delle cose e delle persone.
Con il secondo ci sollecita a vegliare, a vigilare e indica come attivare questa vigilanza: “vegliate e pregate”.
La parola di Dio ci mette al riparo dal rischio di porre l’Avvento a nostro servizio, di piegarlo a quell’immagine di tempo promettente per la nostra vita che apprendiamo altrove e non dalla fede, la quale suggerisce di aprire il nostro cuore a Gesù Cristo, che solo può rendere compiuta la vita, invita a implorarlo e attenderlo operosamente, come abbiamo chiesto al Dio, nostro Padre, nella preghiera della Colletta («suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene»).
E’ la stessa parola di Dio, proclamata in questa prima domenica di Avvento a dare contenuto preciso alle “buone opere” che siamo invitati a compiere per andare incontro a Colui che viene.
L’apostolo Paolo nella seconda lettura (1Ts 3,12-4,2) si augura che il Signore ci “faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra noi (tra i discepoli di Gesù) e verso tutti (un amore che supera i confini della comunità)”. L’augurio rappresenta la concreta sollecitazione per noi ad agire nella nostra vita con amore e per amore “sovrabbondante”, generoso, un amore che non seleziona, che non fa calcoli.
Gesù ci invita a “vegliare”, ad attenderlo. “Attendere il Signore” suggerisce un modo di vivere che coltiva una lucida e attenta sobrietà nei confronti della vita, con i suoi beni e le sue occupazioni, che pratica la preghiera come veglia, attesa, abitata dalla ricerca del Signore (“il tuo volto Signore io cerco”), dal desiderio di stare con il Signore, di conoscerlo sempre più a fondo, di beneficiare della sua presenza pacificante e liberante dai falsi desideri e dai cammini ingannevoli. Una preghiera così plasma lo spessore umano dell’esistenza, ci rende persone affidabili, attente a se stesse e agli altri, con lo sguardo teso a scoprire la presenza del Signore nelle trame, spesso intricate della nostra vita e della storia degli uomini, persone pazienti e serene, anche quando la vita in tanti modi ci mette alla prova.