In questa circostanza, così particolarmente significativa per la mia vita, penso di poter riassumere in una parola i sentimenti che prevalgono nel mio cuore: grazie.
Grazie anzitutto al Signore per il dono inestimabile della vocazione e del ministero: un dono che si spiega soltanto nell’ottica del mistero di amore di Dio. “Non voi avete scelto me, io ho scelto voi” ci ricorda Gesù nel Vangelo (Gv 15,16). Dio sceglie e chiama chi vuole, per amore, senza tener conto dei meriti della persona, delle sue qualità o aspettative. “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore” (Lc 1,46s): è questo il canto che sgorgò dal cuore di Maria nel suo incontro con Elisabetta ed è questo lo stesso canto che anch’io vorrei elevare al Signore per i cinquanta anni di sacerdozio in cui sono compresi gli ultimi diciotto anni vissuti nell’episcopato. A lui, al Signore, va primariamente la mia gratitudine per i tanti doni ricevuti e comunicati attraverso il ministero in questi lunghi anni.
Il mio “grazie” si estende poi a tutti coloro che in un modo o nell’altro in questo periodo mi sono stati vicini, mi hanno accompagnato, sostenuto, “sopportato”, offerto la loro collaborazione e amicizia. Sarebbe impossibile farne un elenco completo. Ma non posso non citare anzitutto la mia famiglia, una famiglia cristiana, semplice, modesta: i genitori che mi hanno trasmesso la vita e ora sono in cielo, mia sorella e mio fratello che sono qui questa sera. Ho un debito di riconoscenza verso coloro, sacerdoti, persone pie, amici dell’Oratorio e dell’Azione Cattolica, i Superiori del Collegio Capranica di Roma – luogo dove ho trascorso gli anni stupendi del Concilio – per l’aiuto che mi hanno offerto nel cammino vocazionale. Sono profondamente grato a quanti ho conosciuto negli atenei e nei seminari dove ho insegnato, nelle parrocchie, nelle associazioni, negli organismi diocesani e con i quali abbiamo camminato insieme in un rapporto di reciproca stima e collaborazione. Il mio sogno, dopo trenta anni di ministero, era quello di tornare nelle Filippine, dove ero già stato alcune volte e dove desideravo continuare stabilmente il mio servizio di insegnamento in un grande Seminario; ma i piani del Signore erano diversi. Inaspettatamente mi giunse la chiamata del Santo Padre Giovanni Paolo II a venire a Senigallia come successore degli apostoli, pastore di questa Chiesa locale. Sono grato a Papa Woijtyla per la fiducia che mi ha mostrato chiamandomi al ministero episcopale.
Dal 1997 ho condiviso la mia vita con voi carissimi fratelli e sorelle, figli e figlie di questa amata Chiesa di Senigallia. Debbo dire che mi sono trovato bene tra voi. Non ringrazierò mai abbastanza i sacerdoti, per la loro testimonianza, la loro disponibilità, la loro collaborazione: senza di loro il mio ministero sarebbe stato impossibile. Grazie in particolate ai miei più stretti collaboratori della Curia diocesana. Grazie anche ai diaconi, alle religiose, ai religiosi, alle persone consacrate. Sono anche riconoscente verso i tanti laici impegnati nelle aggregazioni ecclesiali e nei diversi ambiti della pastorale a partire da quell’ambito cruciale che è la famiglia.
Vorrei inoltre dire il mio grazie alle autorità civili e militari della città e del territorio diocesano: ho apprezzato e apprezzo il loro non facile impegno per il bene comune e sono lieto che in questi anni abbiamo potuto collaborare, nel rispetto delle reciproche competenze, per rispondere ai bisogni della popolazione.
Parimenti desidero manifestare la mia riconoscenza a tutti voi che questa sera vi unite alla mia preghiera di ringraziamento e di supplica come pure a tutti coloro che mi hanno fatto pervenire le loro espressioni augurali: in primo luogo e particolarmente Sua Santità Papa Francesco che ha voluto onorarmi con un suo messaggio e che con la sua benedizione ci aiuta a vivere questa sera un forte momento di comunione con tutta la Chiesa.
Oltre alla gratitudine, l’anniversario dell’ordinazione sacerdotale è anche occasione per ricordare il monito che l’apostolo Paolo rivolgeva a Timoteo e che considero rivolto anche a me: “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te”, il dono del sacerdozio conferito con l’imposizione delle mani (2 Tim 1,6). Questo dono lo si ravviva tornando alle radici, crescendo sempre più nella consapevolezza e riscoperta di quella che è l’identità propria e profonda del prete, quella cioè di essere “scelto fra gli uomini e costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1). “Scelto tra gli uomini”: dunque, non tra gli angeli, perché egli stesso è una persona umana in carne ed ossa, con tutti i pregi e i limiti, che sono propri della natura umana. “Costituito” per il bene degli uomini, cioè consacrato, immesso nella stessa vita di Dio, conformato a Gesù sommo ed eterno sacerdote. “Per il bene degli uomini”: non viene scelto e consacrato semplicemente per il suo bene personale, ma per mettersi al servizio degli altri. Peraltro non si tratta di un servizio qualsiasi, ma di un servizio circa “le cose che riguardano Dio”, le cose che stanno a cuore a Dio, cioè la salvezza degli uomini. In altre parole il sacerdote è consacrato per continuare la missione di Gesù e a questo fine riceve poteri straordinari per rendere presente e operante nel mondo la sua stessa persona divina. Ecco allora il potere straordinario di celebrare l’Eucaristia, centro e cuore del ministero sacerdotale, che oltre a rendere presente la persona di Gesù è ciò che costruisce la Chiesa, ecco anche il potere di riconciliare gli uomini con Dio attraverso il perdono dei peccati, ecco infine il potere, la capacità, di esercitare la carità pastorale per guidare, unire e santificare il popolo di Dio. Ravvivare il dono dell’ordinazione significa dunque per me richiamare alla coscienza che cosa significa essere prete di Cristo e della Chiesa, significa conservare e testimoniare lo stupore, la gioia e la gratitudine per la grazia della vocazione e del ministero.
Sono trascorsi cinquanta anni dalla mia ordinazione. Questo anniversario mi spinge ora a guardare al futuro. Certamente il futuro è nella mani di Dio, ma questo non esime dall’assumere le proprie responsabilità nella vita presente. In quanto a me, come pastore di questa cara diocesi, dovrò mettere in conto il passaggio del testimone al mio successore: non si sa ancora quando questo avverrà, ma è certo che avverrà. Intanto, con l’aiuto di Dio vorrei confermare ogni giorno quel sì pronunciato al momento dell’ordinazione, continuando ad amare e servire la Chiesa qualunque sia il ruolo che sarò chiamato a svolgere. Quel che conta infatti è accogliere l’invito di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo: “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,1-17). Soltanto se si rimane nel suo amore qualsiasi servizio che si svolge nella Chiesa – sia esso quello della guida della comunità o quello della preghiera – assume il suo pieno valore e significato: uniti a Cristo ogni forma di missione produce frutto, ogni paura è vinta, ogni difficoltà viene superata.
A tutti voi che avete voluto manifestarmi il vostro affetto e la vostra vicinanza in questo significativo anniversario oso chiedere la carità di pregare per me e per tutti i sacerdoti e pastori della Chiesa: il Signore ci renda docili e fedeli strumenti nelle sue mani e renda fecondo fino all’ultimo respiro il lavoro che abbiamo intrapreso nella sua vigna. Così sia.