Messa del giorno di Pasqua (27 marzo 2016)

La liturgia del giorno di Pasqua e del tempo pasquale rivolge costantemente l’invito a deporre l’uomo vecchio e a rivestire quello nuovo. La novità non può essere risolta con qualche ritocco nel nostro atteggiamento (sarò più buono, più attento, più giusto, più puro; pregherò di più; farò più elemosine ai poveri…), perché  riguarda il nostro cuore, il nostro modo di stare di fronte a Dio, perché questo segna tutto il resto, il rapporto con la vita, le cose, le persone.

Da questo punto di vista nel cammino, triste e privo di speranza, dei due discepoli di cui parla il racconto dell’evangelista Luca (Lc 24,13-35), riconosciamo quello che a volte è anche il nostro cammino.

Quello dei discepoli di Emmaus è il cammino di due credenti in Gesù, che a un certo punto risulta vuoto della presenza del profeta Gesù e, quindi, vuoto di tutte le speranze che lo avevano accompagnato. La speranza, su cui avevano investito molto, tutto, resta esperienza del passato («Speravamo…»), bella, intensa, ma del passato. Ora non c’è più ragione per sperare. Senza il conforto di una speranza non solo il presente, ma anche il passato appare vuoto e segnato dall’inganno di promesse non mantenute. In simili situazioni il ricordo del passato felice alimenta nel presente tristezza e rassegnazione.

I segnali di questa situazione: i discepoli non sono più in grado di riconoscere Gesù, con il quale erano stati fino a qualche giorno prima. Gesù per loro diventa un “forestiero”, un estraneo.

Una lettura riduttiva di Gesù e della sua vicenda. Per i discepoli Gesù è solo un “profeta”, potente in opere e parole, ma solo un profeta sul quale, una volta che è stato tolto di mezzo (come succede ai profeti scomodi), non si possono più investire le proprie attese.

Della sua vicenda viene fatta una cronaca puntuale, ma dalla quale non emerge nessuna “buona notizia”. C’ è un collegamento tra la speranza delusa e la lettura che i discepoli fanno della vicenda di Gesù, una lettura che è solo una cronaca dei fatti accaduti e non invece una lettura che coglie il senso profondo di questi avvenimenti, la loro qualità di “buona notizia” (vangelo). Per questo motivo la cronaca non può che concludersi con l’amara affermazione: «Ma lui non l’hanno visto».

I discepoli sono avvicinati da Gesù, il quale si fa vedere, si fa conoscere. Gesù, di fronte ai discepoli, spiega delle Scritture e spezza il pane. E la situazione dei discepoli cambia.

I segnali di questo cambiamento: Gesù non è più il viandante sconosciuto, lo straniero, ma il Signore. Il riconoscimento dei discepoli non riguarda solo l’identità di Gesù, ma anche la comprensione della sua vicenda, che ai discepoli non appare più deludente, ma capace di dare speranza.

«Non ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». I discepoli riconoscono che il loro “cuore” è stato profondamente segnato dall’ascolto della parola di quello sconosciuto. Il loro non è più un cuore abitato da una speranza delusa, abbattuto, ma è un cuore vivace, in grado di sperare nuovamente. Riconoscono le parole di Gesù come compagnia amica, capace di farli ritornare a sperare.

«Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme». Il senso del cammino dei discepoli si capovolge: all’inizio risultava una fuga, alla fine un ritorno. Un ritorno che sta sotto il segno della premura di raccontare quanto è accaduto, segno di una libertà ritrovata, di una speranza rinata, perché ha riconosciuto in Gesù, il crocifisso risorto, la Parola che è e da’ la vita.

«Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane». I due discepoli non trattengono per sé la scoperta che Gesù è risorto, ma la attestano anche agli altri, perché anche loro possano riconoscerlo come Risorto, come speranza affidabile per la loro vita. È l’inizio e il senso della testimonianza.

Possiamo trovarci anche noi nella stessa situazione dei due discepoli. Può capitare che il nostro rapporto con il Signore venga ridimensionato, diventi più incerto, disorientato, con l’inevitabile conseguenza che il Signore sembra sempre più lontano, estraneo, inadempiente riguardo alle promesse di felicità, di vita. Magari ci sorprendiamo anche noi a ripetere sconsolato che “speravamo…”. Quando ci troviamo in tale stato non siamo più in grado di riconoscere il Signore risorto che cammina con noi, non siamo capaci di cogliere le testimonianze della sua presenza e ci sembra di essere rimasti soli a provvedere alla vita, senza più speranza.

Gesù, con la sua parola, ci raggiunge per via, cammina con noi; arriva senza che ce l’aspettiamo, in modi misteriosi e spesso sorprendenti, c’interpella: «Chi cerchi? Che cosa dici? Cosa ti interessa?». M’interroga su chi sono, su cosa voglio, su cosa faccio. Corregge le mie letture parziali della vita, del Signore, della sua azione a favore degli uomini.

Questo può essere il senso della Pasqua, dell’invito della parola di Dio a deporre l’uomo vecchio e a rivestire quello nuovo: consentire a Gesù Cristo, il Crocifisso risorto, di dire al nostro cuore la verità della sua croce e risurrezione, perché la sappiamo apprezzare, fare nostra e testimoniarla come l’unica verità capace di salvare l’uomo.

Non sarebbe da poco se per ascoltare, accogliere questa verità e mantenerci capace di rappresentarla con la nostra esistenza, imparassimo a dare maggiore ascolto alla testimonianza delle Scritture e consentissimo più frequentemente al Risorto di restare con noi e di spezzare il pane del suo corpo dato per noi.

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