La morte, come annota un filosofo antico, fa sentire gli uomini «come città senza mura» (Epicuro) e, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei, con la paura che procura, li rende «schiavi per tutta la vita» (2,15). A volte la morte ci “aggredisce” in anticipo: la diagnosi di una malattia grave, il prolungarsi di un’infermità (nostra o di persone care), la perdita di una persona cara, hanno il potere di sovvertire profondamente la nostra esistenza, di disarmarla, proprio come “una città senza mura”.
Anche Gesù si è trovato a vivere una situazione di morte (la morte di Lazzaro, caro amico), che non lo lascia indifferente. L’evangelista Giovani segnala il turbamento e il pianto irrefrenabile di Gesù: «Scoppiò in pianto». Il turbamento e il pianto di Gesù sono provocati non solo dalla sofferenza per la morte dell’amico, ma anche probabilmente dal pensiero della propria morte, ormai imminente.
Gesù però non si lascia travolgere dalla morte, anzi la domina, impedendole di mettergli paura.
La signoria di Gesù nei confronti della morte ha origine dalla sua fede in Dio Padre, il quale non consente che la morte rapisca dalle sua mani i suoi figli. Gesù sa che può contare sul Padre nella sua lotta contro la morte, propria e dei suoi amici («Padre ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto…»).
Gesù ci educa a non soccombere alla paura della morte anche nel modo con cui reagisce alla notizia della malattia di Lazzaro: «Quando sentì che era malato, rimase due giorni nel luogo dove si trovava». Gesù non si lascia travolgere dal potere dispotico della morte perché non interrompe le sue opere buone quando è raggiunto dalla notizia che l’amico cui vuole bene è malato. Gesù, proseguendo la sua opera, dice che la sua vita è più forte della morte, che il suo non è un tempo precario, ma pieno, un tempo sul quale la morte non può mettere le mani. Sembrano indicare questo le parole sorprendenti di Gesù a commento della notizia della malattia di Lazzaro: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato».
Gesù suggerisce ai discepoli come non restare prigionieri della morte: «Chi vive e crede in me non morirà in eterno». La risurrezione che Gesù promette non è solo la prospettiva di un futuro remoto, troppo lontano per rassicurarci riguardo alla precarietà del presente, che appare inevitabilmente destinato alla morte, ma rappresenta la verità già di oggi: chi vive e crede non morirà.
Gesù vuol dirci che chi conduce la propria esistenza nel segno della fede in Lui e come Lui nel segno della fede in Dio che “ci fa uscire dai sepolcri” della disperazione, della morte (cfr la profezia del profeta Ezechiele nella prima Lettura) e non “lasciandosi dominare dalla “carne” (cfr il testo di Paolo ai Romani proposto dalla seconda Lettura), impedisce alla morte di intimidire la sua vita e c’insegna a condurre la nostra esistenza, con tutto quello che questa ci riserva, morte compresa, nella speranza della risurrezione, che dà serenità e coraggio.