«Gesù in persona si accostò e camminava con loro» (Lc 24,13-35)
Leggiamo il testo
La trama del racconto
La situazione (di partenza) dei due discepoli
«Erano in cammino». Sono in viaggio da Gerusalemme a Emmaus. Non si tratta solo di un spostamento da un luogo all’altro, ma di una “fuga”, dell’abbandono del luogo dove si è consumata tragicamente la vicenda di Gesù e dove è andata delusa la loro speranza. La fuga avviene proprio nel giorno in cui alcune donne annunciano che Gesù è risorto (cfr vv 1-10). Un annuncio accolto con scetticismo («Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse»), anche se li aveva sconvolti.
«Conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto… mentre conversavano e discutevano insieme». Continuano a discutere (letteralmente a “cercare insieme”, “litigare”) tra di loro di Gesù. Non riescono a staccarsi da Gesù, anche se per loro resta un morto.
«I loro occhi erano impediti a riconoscerlo». Strana ed emblematica l’incapacità dei discepoli di riconoscere Gesù, considerato addirittura come un “forestiero”. Strana, perché Gesù per loro non era uno sconosciuto, lo frequentavano da tanto tempo. Inoltre erano rimasti con lui fino a pochi giorni prima. Emblematica, perché segnala l’incapacità dei discepoli di riconoscere il Risorto in assenza di una sua iniziativa. Gesù è riconosciuto come Risorto quando lui prende l’iniziativa, si mostra, si rivela come tale.
«Si fermarono, col volto triste» . Interrompono il cammino, lasciano trasparire sul volto la tristezza del cuore.
L’origine di questa situazione
«Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele». All’origine della situazione dei discepoli sta:
– una speranza delusa, riguardo non a qualcosa di marginale, ma di decisivo: la liberazione d’Israele. La speranza deve essere stata forte, convincente, tanto che avevano lasciato tutto per seguire Gesù. La delusione è pesante, a tal punto da non ritenere plausibile la notizia portata dalle donne che Gesù è risorto, è vivo.
– Una lettura riduttiva di Gesù e della sua vicenda. Per i due discepoli Gesù è solo un “profeta”, potente in opere e parole, ma solo un profeta. Della sua vicenda viene fatta una cronaca puntuale, ma dalla quale non emerge nessuna “buona notizia”.
C’ è un collegamento tra la speranza delusa e la lettura che i discepoli fanno della vicenda di Gesù, una lettura che è solo una cronaca dei fatti accaduti e non invece una lettura che coglie il senso profondo di questi avvenimenti, la loro qualità di “buona notizia” (vangelo). Per questo motivo la cronaca non può che concludersi con l’amara affermazione: «Ma lui non l’hanno visto».
L’incontro con Gesù
L’iniziativa di Gesù
«Gesù in persona si accostò e camminava con loro». Due verbi descrivono il movimento di Gesù verso i discepoli:
- si accosta, non resta a distanza, lontano, estraneo a loro.
- Cammina con loro, condivide il cammino e la loro conversazione. La forma verbale – l’imperfetto (camminava) – dice di un atteggiamento che si prolunga nel tempo.
La parola di Gesù
È una parola chiarificatrice, che ha la forma del rimprovero, di un interrogativo e di un chiarimento.
– Il rimprovero («Stolti e lenti di cuore a credere a tutto ciò che hanno detto i profeti…») fa riferimento alla lettura che i discepoli fanno della sua vicenda, ispirata da un’intelligenza incapace di comprendere (ottusità) e da un cuore che non da’ credito alle parole dei profeti.
– L’interrogativo («Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?») riguarda la “necessità” della morte in croce di Gesù, quindi il senso del suo morire. La “necessità” della morte in croce di Gesù non è data da un’imposizione (Gesù deve morire per “risarcire” Dio offeso dai peccati degli uomini), ma dall’insondabile gratuità dell’amore di Dio Padre, il quale si prende cura degli uomini, si dedica incondizionatamente al loro bene, senza alcun limite, nemmeno quello di salvaguardare il proprio buon nome di Dio onnipotente, di Dio Padre di Gesù («Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuole bene», Mt 27,43). Gesù accetta di morire in croce per dire che la risposta di Dio al peccato degli uomini non è l’eliminazione dei peccatori né di chi – il Figlio – eventualmente prende il loro posto, ma è il rimettere i peccatori al loro posto originario – quello dei figli – l’unico che garantisce loro la vita.
– Il chiarimento consente a Gesù di rifare la sua storia, di rileggerla con la Scrittura stessa (“Mosè e i profeti”) per correggere la lettura sbagliata, fuorviante dei discepoli.
I gesti di Gesù
– «Entrò per rimanere con loro». Gesù acconsente alla richiesta insistente dei due discepoli («Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”»). Quella di Gesù non è una presenza temporanea, ma è una presenza che “dimora” con gli uomini. Gesù abita il tempo dell’uomo.
– «Quando fu a tavola, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». Gesù ripropone il gesto dell’ultima cena, gesto istruito dal suo grande desiderio («Ho tanto desiderato…») di prendersi cura dei discepoli, di continuare a stare in mezzo a loro come colui che serve il loro desiderio di vivere («Io sto in mezzo a voi come colui che serve»).
La nuova situazione dei discepoli
«Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». Gesù non è più il viandante sconosciuto, lo straniero, ma il Signore. Il riconoscimento dei discepoli non riguarda solo l’identità di Gesù, ma anche la comprensione della sua vicenda, che ai discepoli non appare più deludente, ma capace di dare speranza.
«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
I discepoli riconoscono che il loro cuore è stato profondamente segnato dall’ascolto della parola di Gesù. Il loro non è più un cuore abitato da una speranza delusa, abbattuto, ma è un cuore vivace, in grado di sperare nuovamente. Riconoscono le parole di Gesù come compagnia amica, capace di farli ritornare a sperare.
«Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme». Il senso del cammino dei discepoli si capovolge: all’inizio risultava una fuga, alla fine un ritorno. Un ritorno che sta sotto il segno della premura di raccontare quanto è accaduto, segno di una libertà ritrovata, di una speranza rinata, perché ha riconosciuto in Gesù, il crocifisso risorto, la Parola che è e da’ la vita.
«Essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane». I due discepoli non tengono per sé la scoperta che Gesù è risorto, ma la attestano anche agli altri, perché anche loro possano riconoscerlo come Risorto, come speranza affidabile per la vita. È l’inizio e il senso della missione.
Meditiamo la Parola
Ci lasciamo interpellare dal Signore. Suggerisco tre piste per il nostro ascolto
Il racconto del nostro ministero
Ogni racconto che facciamo della nostra vita, quindi anche il racconto del nostro ministero, parla di noi, delle nostre speranze, dei nostri investimenti.
Il racconto del mio ministero che faccio a me, agli altri, lascia intravedere una persona serena, non delusa della scelta che ha fatto di seguire il Signore, di stare al suo servizio in questo tempo, in questa Chiesa, in questo momento della propria vita, oppure tradisce insofferenza, malcontento, una tristezza persistente, forse anche qualche rimpianto?
Il mio ministero non racconta solo di me, ma anche del Signore. Cosa sta raccontando del Signore il mio ministero? Racconta di un Signore Risorto, vivente, datore di vita e custode affidabile delle speranze degli uomini oppure parla di un Signore, che non è risorto, perché resta nel sepolcro delle speranze deluse, delle paure che paralizzano e che suggeriscono atteggiamenti di difesa, di chiusura, di rassegnazione?
La parola di Gesù, compagnia amica nel mio cammino di credente e di presbitero
Gesù, con la sua parola, mi raggiunge per via, cammina con me; non sono io che vado da Gesù ma è lui che mi raggiunge, si unisce a me. Arriva senza che me l’aspetti, in modi misteriosi e spesso sorprendenti, m’interpella. Può raggiungermi anche quando mi allontano, anche quando il mio sguardo non è rivolto verso la direzione giusta.
La Parola è sempre un segno della grande misericordia di Dio, nel senso che m’interpella anche se non la cerco. La Parola m’interpella sul mio sapere. Non mi porta altrove da me stesso, mi raggiunge dove sono e comincia col farmi prendere coscienza di me stesso: «Chi cerchi? Che cosa dici? Cosa ti interessa?». M’interroga su chi sono, su cosa voglio, su cosa faccio e la ricevo nel luogo in cui sono, nel luogo non tanto geografico, ma in quello interiore, là dove voglio essere, là dove cerco la mia identità. Mi fa prendere coscienza di me stesso. Corregge le mie letture parziali della vita, del Signore, della sua azione a favore degli uomini, del ministero. E’ la Parola che prende l’iniziativa di un altro dialogo, di un mutamento di orizzonte, di un cambiamento di discorso.
La Parola punta al cuore per ridestarlo («I nostri cuori non erano ardenti?»). E’ un cammino, però, di cui uno non se ne accorge, che conduce a riconoscere Dio al termine. Devo avere molta fiducia e lasciare che la Parola mi interpelli, anche se non vedo nessun risultato, perché il risultato lo vedrò a sera. Per cui non devo stare continuamente a valutare il risultato della Parola nella mia vita (se la mia fede aumenta, è più illuminata, se ne so di più, se sono diventato più buono, se ci sono risultati nel mio ministero).
Bisogna camminare con la Parola.
Nell’Eucaristia Gesù “apre” i miei occhi, perché lo riconosca come presenza amica, affidabile, riscopra l’autentica immagine di Dio.
Quello che succede nella mia vita di credente e presbitero e nella storia degli uomini può disorientarmi, far apparire il Signore sempre più lontano, estraneo, inadempiente riguardo a quelle promesse, sulle quali ho costruito la mia esistenza (pensiamo alla risposta che dà a Pietro: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt19,29). Magari mi sorprendo anch’io a ripetere sconsolato che “speravo…”. Quando mi trovo in tale stato non sono in grado di riconoscere il Signore risorto che cammina con me, non sono capace di cogliere le testimonianze della sua presenza e mi sembra di essere rimasto solo a provvedere alla mia vita, la ministero, senza più speranza.
Gesù, il Risorto, incontra i suoi discepoli, ogni “primo giorno dopo il sabato”, celebrando l’Eucaristia, la memoria della sua Pasqua. Quella della celebrazione non è una memoria che lascia le cose come sono (come succede nelle tante celebrazioni fatte dagli uomini), perché Gesù “apre” la mia mente alla comprensione delle Scritture, “fa ardere” il mio cuore per la sua presenza.
“Aprire la mente” e “far ardere il cuore” indicano l’unica azione di Gesù, intenzionata a farmi passare dall’incredulità alla fede. L’incredulità non consente di comprendere la rivelazione di Dio, perché la mente e il cuore restano in balia delle mie letture – di Dio, degli altri, di me stesso, della Chiesa, della storia… – che nella vita quotidiana si accumulano e sembrano prevalere in me. Impedisce al cuore di riconoscere (“ardere”) il Signore presente nella Parola proclamata e nel pane spezzato, un cuore che sembra indurito (“di pietra”) chiuso a ogni interpellanza, indisponibile a ogni relazione.
Il Risorto, nella celebrazione mi guarisce dall’incredulità e dalla durezza del cuore, parlandomi, rivolgendomi la sua parola e spezzando il pane. In questo modo la mia mente si apre alla comprensione della rivelazione di Dio, che nella croce di Gesù si presenta come incondizionatamente impegnato a favore degli uomini, a mio favore, Dio affidabile, perché “serve” gli uomini, prende sul serio il loro desiderio di vita.
In questo modo il mio cuore può tornare a gioire e posso riconoscere il Signore all’opera nelle vicende di una storia, personale ed epocale, che spesso sembra consegnarcelo più nelle sembianze di uno sconosciuto, estraneo a quanto sta capitando, che in quelle rassicuranti del Signore, interessato alle vicende dei suoi discepoli, guida sicura della storia degli uomini, schierato a difesa dei piccoli, dei poveri, contro i potenti e i malvagi.
E posso ritornare anch’io a Gerusalemme, nella città degli uomini e annunciarvi Gesù, il Risorto, speranza degli uomini e delle donne che la abitano; posso ritornare in quella Gerusalemme, che vorrei abbandonare, che sono le situazioni difficili, deludenti, fallimentari, che appesantiscono il cuore e impediscono di riconoscere il Signore che cammina con me, per abitarle con il “cuore ardente” del discepolo che sa il Signore Risorto e che “resta con noi”.