Da qualche giorno è in vigore il decreto legge sulle DAT, le Disposizioni Anticipate di Trattamento. Si tratta del primo risultato dopo numerose proposte di legge volte a offrire delle norme sul delicato ambito del fine vita. La legge – che affronta una questione enormemente complessa, le cui sfumature sfuggono anche agli addetti ai lavori – ha suscitato opposte reazioni: c’è chi l’ha salutata come un passo verso la maggiore autodeterminazione del singolo paziente e chi invece l’ha condannata come il primo malcelato passo verso la legalizzazione di pratiche eutanasiche in Italia.

Dobbiamo chiederci anzitutto: da dove viene questa legge? Si dice: «Il morire rischia di diventare, sia per chi lo patisce sia per chi assiste, una prova “enorme”». Questa affermazione, parlando della specifica situazione delle patologie cronico-degenerative, allude a un problema più ampio: sempre di più, grazie alle straordinariamente accresciute possibilità tecniche della medicina, si presenta il rischio dell’accanimento terapeutico, che può essere definito come «il complesso di cure e interventi praticati in misura eccessiva per mantenere in vita pazienti che soffrono molto e non hanno possibilità di guarigione».

Nel quadro generale del problema, caratterizzato dal rapporto tra attuali tecnologie mediche, fine vita, scelte personali sulle cure a cui sottoporsi, le DAT nascono per regolamentare una situazione per alcuni aspetti inedita. Esse intenderebbero permettere al singolo individuo di pronunciarsi anticipatamente su scelte relative al suo fine vita nel caso in cui si venisse a trovare in condizioni gravissime e non fosse più in grado di disporre di sé. In virtù della legge, egli può dichiarare in anticipo la propria volontà riguardo alle terapie che intenderà o non intenderà accettare, incluse nutrizione e idratazione artificiali, per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti che costringano a trattamenti permanenti.

La problematica non si presta ad essere affrontata con un colpo di scure. Vale la pena perciò riproporre almeno alcune delle domande che essa ha sollevato.

La prima riguarda la natura di una decisione. Si può realmente scegliere prima quello che non potremo scegliere poi? Chi sottoscrive una DAT stabilisce nel presente la sua scelta futura: ma è realmente possibile prevedere che cosa si farà rispetto a questo o quel singolo trattamento, quando esso sarà inevitabilmente inserito in una determinata situazione clinica, familiare, sociale, affettiva, culturale, economica? Ci sono variabili non prevedibili, che non possono essere valutate in anticipo.

Ora, da una parte gli orientamenti sottesi alle scelte maturano nel corso degli anni, dall’altra ogni scelta (di oggi o di domani) è sempre legata al momento e al contesto (quello di domani sarà diverso da quello di oggi).

La seconda domanda riguarda il rapporto tra decisione e cognizione. Anche se a decidere è un soggetto sano e nel pieno possesso delle sue facoltà, perché la sua decisione sia tale non occorre una adeguata conoscenza dei fattori in gioco? E non vi è bisogno per questo del confronto con un medico? Il dialogo tra chi può fornire elementi indispensabili a una scelta consapevole e chi è chiamato ad esercitare la propria libertà ci sembra fondamentale. Nella legge non è prevista la presenza di un medico al momento della stesura delle DAT, né che esista una figura deputata ad assicurarsi che il firmatario delle DAT abbia una nozione sufficiente delle patologie e dei trattamenti su cui si appresta a compiere i suoi pronunciamenti.

Il terzo interrogativo concerne l’interpretazione specifica di nutrizione e idratazione. Tra le cure mediche incluse fra quelle che il paziente ha diritto di rifiutare nelle proprie DAT compaiono infatti anche idratazione e nutrizione artificiale. Esse sono un trattamento sanitario o una pratica umana che impedisce la morte per fame e per sete di un individuo invalido? Non si può astrattamente dire se nutrizione e idratazione siano in assoluto l’una o l’altra cosa: occorre una valutazione caso per caso, in rapporto alla patologia, al quadro clinico, alla situazione globale della persona. Sorge allora di nuovo la domanda: come si possono far valere le sfumature della condizione di un paziente, se nella propria DAT egli ha sinteticamente espresso la volontà di “rifiutare le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali”?

Siamo tutti di fronte a simili interrogativi, e non li possiamo liquidare tanto in fretta. Ciò mette in luce forse il fattore più decisivo: che la persona non sia sola. Il sottofondo di un certo modo di concepire, che tutti respiriamo e che può riflettersi anche nella scrittura delle norme, è una immagine dell’uomo come atomo, individuo isolato, senza relazioni, senza contesto umano intorno a sé. Ma quanto più si è soli e ci si sente abbandonati, tanto più è difficile una lucidità nella valutazione e una ragionevolezza nelle decisioni. Perciò non è superfluo ripetere quello che dice Enrico Larghero, medico anestesista torinese: «Le decisioni si devono prendere insieme, nel rispetto della vita e della dignità». Un “insieme” che indica tanto il rapporto con le persone care intorno a sé quanto il rapporto con figure di medico affidabili. È un singolo che decide. Ma – come l’esperienza ci dice – ognuno di noi decide meglio quando è e si sente in relazione con altri da cui si scopra amato e verso cui nutre fiducia. E’ questo che si cercherà di capire nell’incontro “Cura e testamento biologico. Una sfida impossibile? ” promosso dalla Pastorale della Salute, dall’Azione Cattolica della Diocesi di Senigallia e dall’Associazione “L’amore Donato onlus” di Senigallia. L’incontrò si terrà venerdì 9 marzo alle ore 21 all’Auditorium San Rocco di Senigallia e vedrà come relatori il Prof. Luigi Alici, Docente di Filosofia morale all’Università di Macerata, ed il Dr. Paolo Marchionni, Direttore f.f. UOC Medicina legale Area Vasta 1.

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