Cena del Signore (Giovedì Santo 18 aprile 2019)

L’evangelista Giovanni, introducendo il racconto dell’ultima sera che Gesù trascorre con i suoi discepoli in quella sala fatta preparate da lui per la Pasqua, ci informa che Gesù era consapevole, sapeva che era giunta la sua ora.

Di che ora si tratta? Si tratta dell’ora della sua morte, che Giovanni presenta come il “tonare di Gesù al Padre”. Gesù sa che la sua esistenza sta per concludersi con una morte violenta (come aveva più volte anticipato ai discepoli). Violenta perché, anzitutto, procurata con la complicità di uno dei Dodici – Giuda – che lo aveva venduto ai capi d’Israele; violenta, inoltre, per il modo con cui accadrà – la crocifissione. Quella in croce non era solo una morte violenta, ma anche una “morte infame”.

Gesù affronta quest’ora drammatica prendendo una decisione. E’ ancora Giovanni a raccontarlo: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Gesù quella sera non ha deciso di pensare a se stesso, come mettere in sicurezza la propria vita, ma ha deciso di amare i suoi amici “fino alla fine” (fino cioè a dove non è più possibile andare oltre perché quanto c’era da dare è stato dato, fino alle estreme conseguenze), come mettere in sicurezza la loro vita. Lo dicono i gesti che Lui ha compiuto durante quella cena pasquale.

L’apostolo Paolo nella seconda lettura (1Cor 11,23-26) ricorda alla comunità di Corinto quello che lui ha ricevuto e che a sua volta a tramesso: “nella notte in cui veniva tradito”, Gesù, non solo aveva “spiegato” ai discepoli che la “morte infame” che avrebbe subito era per loro (“è per voi”), a motivo della decisione che aveva preso di amarli “fino alla fine”, ma anche li aveva invitati a “conservare memoria” di quel suo amore spinto “fino alla fine”. Paolo conclude ricordando ai Corinti, e anche a noi che abbiamo ascoltato la sua parola, che ogni volta che “mangiamo quel pane e beviamo quel calice”, noi “annunciamo la morte del Signore”, quella morte a cui l’ha condotto la sua decisione di “amarci fino alla fine”.

Nel vangelo Giovanni ha raccontato un gesto di Gesù, ritenuto da Pietro inaccettabile, perché non all’altezza di lui, Maestro e Signore, un gesto affidato agli schiavi, ai servi. Gesù non recede di fronte al rifiuto di Pietro, lo aiuta a superare l’iniziale rifiuto e a consegnarsi a esso senza limiti (“non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”). Gesù spiegherà poi a Pietro e ai suoi amici che lui, riconosciuto da loro, a ragione, come Maestro e Signore, non si fa servire né si serve di loro e li inviterà a fare altrettanto tra di loro, a non farsi servire, né a servirsi gli uni degli altri, ma a mettersi a servizio gli uni degli altri.

Nella preghiera che abbiamo rivolto a Dio, prima di proclamare la sua parola, abbiamo riconosciuto che siamo qui su suo invito (“ci hai riuniti”), per “celebrare” quella Cena, cioè fare memoria, come aveva chiesto Gesù ai discepoli, di quanto è accaduto quella sera.

Faremo memoria di quella Cena, ricevendo, come in ogni Eucaristia, dal Signore quel pane e quel calice che dicono il suo amore per noi “fino alla fine”. Non lo dicono soltanto ma lo comunicano anche, perché attingiamo da qui “pienezza di carità e di vita”, quella carità, di cui c’è tanto bisogno, ma che è così difficile da praticare, che si lascia ispirare e condurre dalla decisione di Gesù di amare fino alla fine, di servire e non di farsi servire.

E’ alla pratica di questo tipo di amore che ci sollecita il gesto, che solo nella memoria eucaristica del giovedì santo viene compiuto, la lavanda dei piedi. Il gesto che tra poco compirò nei confronti di persone, che per la loro condizione di vita, sollecitano l’attenzione di un amore generoso, vuole essere l’espressione di una Chiesa, della nostra Chiesa di Senigallia, che desidera apprendere dal suo Maestro e Signore, la pratica di un amore che non si lascia intimorire dalle difficoltà, né bloccare dalle paure; un amore che si china, come ha fatto Gesù, sulle sofferenze delle persone, senza fare distinzioni né dare precedenze.