XV domenica Tempo Ordinario (12 luglio 2020)

Quanto scrive il profeta Isaia (Is 55,10-11) è rassicurante. Anzitutto perché il Dio, di cui è portavoce il profeta, non è un idolo inanimato (come i tanti idoli costruiti dalle mani degli uomini, di cui parla il salmo 114: «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni»), è un Dio vivo, che alimenta desideri, che desidera.

Il profeta fa riferimento alla parola di Dio in grado di realizzare, di compiere, il suo desiderio. Anche Dio, come noi umani, affida alla propria parola il compito di realizzare il desiderio che ha in cuore.

Del desiderio di Dio ci parlano il salmista (cfr salmo responsoriale 64) e l’apostolo Paolo (Rm 8,18-23).

Entrambi, pur con linguaggi diversi (il salmista con le esuberanti immagini della terra ricolma di ricchezze, l’Apostolo con affermazioni più sobrie [la gloria dei figli di Dio, l’adozione a figli cui siamo destinati], ma non meno pregnanti) ci illustrano un desiderio di Dio benevolo nei nostri confronti, rassicurante per noi che gemiamo, con l’intera creazione, prigionieri di una caducità di cui siamo noi stessi responsabili.

Quello di Dio non è solo un desiderio benevolo, a noi favorevole, ma anche determinato, come è determinato il seminatore di cui parla Gesù nel vangelo (Mt 13,1-23) che non fa calcoli né valutazioni riguardo a possibili perdite economiche con la sua azione che non seleziona preventivamente i campi adatti in cui seminare.

Con il commento alla parabola Gesù ci avverte che il desiderio di Dio non è, al pari di tanti nostri desideri, un desiderio “dispotico”, travolgente, insofferente di fronte a eventuali resistenze.

I diversi tipi di terreno alludono alla nostra disposizione nei confronti della parola di Dio (il seme) che ci interpella e che chiede ospitalità nel nostro cuore per portare frutto nella nostra vita (per assecondare il desiderio di Dio).

La conclusione della parabola offerta da Gesù (“chi ha orecchi ascolti”) ci sollecita a operare un discernimento riguardo all’ascolto che riserviamo alla parola di Dio, quella parola che troviamo nel libro delle Scritture sante, che ci viene rivolta nell’Eucaristia, che ci interpella negli avvenimenti della vita e nelle persone che incontriamo, soprattutto nei poveri e nelle persone in difficoltà.

Un discernimento che individui non solo le eventuali resistenze che opponiamo alla parola di Dio, resistenze che impediscono di portare quei frutti che Dio attende, ma anche la qualità del nostro ascolto dal quale, come ci richiama il terreno buono dove il seme gettato non porta frutto nella stessa quantità, dipende il frutto, mediocre, buono o ottimo, della parola che Dio ci ha rivolto.

Il nostro cammino di fede tradisce tante resistenze, tante chiusure alla parola di Dio. Per questo abbiamo chiesto al Padre e lo dobbiamo chiedere spesso, di “accrescere con la potenza del suo Spirito la nostra disponibilità ad accogliere il germe della sua parola”, che Lui “continua a seminare nei solchi dell’umanità”, perché a quella parola sia consentito di realizzare il suo desiderio, per cui non si stanca di rivolgerla a noi: che nella creazione, nel mondo degli umani, si compiano opere di giustizia e di pace e che il mondo degli umani sappia a quale speranza è destinato, “quella del suo regno”, cioè la “libertà della gloria dei figli di Dio”.

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