XXIV domenica Tempo Ordinario (13 settembre 2020)

Nella preghiera del “Padre nostro” chiediamo al Padre di “rimettere a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Quel “come noi li rimettiamo ai nostri debitori” sembra dichiarare la disponibilità e l’impegno da parte nostra a perdonare chi, in tanti modi, ci fa del male (“i nostri debitori”). Noi sappiamo che il perdono a chi ci fa del male non è scontato; anzi, spesso, ci appare impraticabile. Eppure non ci rassegniamo alla fatica del perdono.

Fa pensare quanto ci mostra la televisione: tra le domande rivolte dal cronista  a chi ha subìto un atto criminoso, spesso, per non dire quasi sempre, troviamo la domanda (che ai più appare inopportuna per le circostanze) sulla eventuale disponibilità a concedere il perdono. Come spiegare questa richiesta?  Penso che a ispirare la richiesta sia la speranza che qualcuno riesca ad arginare il male, che rispondere al male con altro male, o senza in qualche nodo disattivarlo, non fa che alimentare il timore che il male alla fine risulti sempre vincente.

Proprio perché il perdono ci appare spesso impraticabile, non alla portata delle nostre “risorse” abbiamo chiesto al “Dio di giustizia e di amore”, di “creare in noi un cuore nuovo a immagine del suo Figlio, un cuore sempre più grande di ogni offesa (capace di perdono)”.

Nella preghiera la “novità” del cuore è identificata con la pratica del perdono (“sempre più grande di ogni offesa”) e con la somiglianza di Gesù (“a immagine del tuo Figlio”). Il pensiero va a come Gesù reagisce alla violenza di chi gli sta togliendo la vita: le prime parole che pronuncia appena crocifisso, non sono parole di minaccia, di violenza, ma una preghiera al Padre, non per chiedergli di vendicarlo, ma per invitarlo al perdono (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”, Lc 23,34).

Il “buon ladrone”, dopo aver sentito queste parole di Gesù, prende coraggio per fargli una richiesta sorprendente: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Per la prima volta nella sua vita sente pronunciare parole ispirate non dalla violenza, dal desiderio di vendetta, ma di perdono.

Nel vangelo, appena proclamato (Mt 18,21-35), Pietro rivolge a Gesù una domanda che dà per scontato che il perdono non va negato, va però regolato («Quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?»). La risposta di Gesù alla richiesta di Pietro esclude, anzitutto, che il perdono venga regolato («Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette [=sempre]»). Per motivare la risposta Gesù racconta una parabola dove emerge.

Il rimprovero del padrone al servo che si era visto condonare da lui un debito enorme, praticamente inestinguibile (“diecimila talenti”) e che non accolto la richiesta del suo compagno, che doveva saldare con lui un debito molto inferiore  – “cento denari”- (“Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come io ho avuto pietà di te?”) rappresenta un antefatto importante che non solo giustifica il perdono, ma anche lo rende praticabile.

E’ questa la conversione richiesta dal Vangelo: imparare a guardare le cose da un antefatto, cioè dal vangelo del perdono di Dio, della sua magnanimità che perdona oltre ogni richiesta. Se dimentichiamo che siamo stati, per primi perdonati, gratuitamente e abbondantemente, non riusciamo a capire il perdono, sia quello di Dio verso di noi che il nostro verso i fratelli.

Può darsi che stia anche qui la spiegazione della nostra indisponibilità o fatica a concedere il perdono: noi non percepiamo che siamo prima di tutto dei perdonati, che quanto ci viene condonato per misericordia, è infinitamente più grande di quanto dobbiamo condonare noi a chi ci fa del male.

Questa la strada da percorrere per superare le nostre resistenze al perdono: imparare a coltivare verso chi mi fa del male la stessa pietà che Dio ha nei miei confronti. Perché la pietà che io ho nei confronti dell’altro dice la verità del mio rapporto con Dio. E’ questo il senso della domanda posta dal Siracide nella prima lettura: «Un uomo che resta in collera con un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?».