Celebrazione della Passione del Signore (Venerdì Santo 2 aprile 2021)

Oggi i discepoli di Gesù non celebrano l’Eucaristia. Eppure, appena ieri nella celebrazione della Cena del Signore, Gesù li aveva invitati a fare memoria (“fate questo in memoria di me”) del gesto con il quale “spiegava” la sua morte e nel quale avrebbe realizzato a favore dei discepoli futuri (quindi anche di noi) quanto avrebbe propiziato con la propria morte (la nuova ed eterna alleanza, la remissione dei peccati).

Se nel Venerdì santo non risuonano le parole di Gesù, viene offerto però al nostro sguardo Gesù in croce, il Crocifisso. Al cuore della celebrazione sta la contemplazione e l’adorazione di Colui che sta in croce, che è diventato un tutt’uno con il legno della croce, a cui sono stati appesi, e a volte vengono ancora appesi, tante persone da parte di chi si arroga il diritto di disporre della loro vita.

Oggi onoreremo il mandato di Gesù (“fate questo in memoria di me”) guardandolo in croce, con lo sguardo stupito e riconoscente di chi riconosce che se Gesù si trova lì è per noi, è perché “mentre eravamo ancora peccatori lui è morto per noi” (cfr Rm 5,8).

La celebrazione non ci presenta, però, subito il Crocifisso, perché vuole accompagnarci a questo sguardo con la parola delle Scritture sante. Si tratta di una decisione saggia, perché anche noi al Crocifisso ci siamo un po’ abituati, tanto che per molti è diventato come un ornamento, un gioiello da esibire con tanta disinvoltura.

Il testo del profeta Isaia proclamato dalla prima Lettura (Is 52,13-53,12), con il suo linguaggio drammatico (addirittura spietato) consente di comprendere chi è Gesù che sta in croce e perché vi sta. Isaia non poteva conoscere Gesù, quando scrive, per conto di Do, questo testo, nel quale si parla di una persona (il Servo di Dio) che “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità… maltrattato si lasciò umiliare e non aprì bocca”. È tale la violenza che lo ha colpito che, scrive rileva Isaia, “non ha apparenza e bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”.

Eppure è proprio “per le sue piaghe che noi (che eravamo sperduti come un gregge) siamo stati guariti”.

Nel brano della Lettera agli Ebrei, proclamato dalla  seconda Lettura (Eb 4,14-16; 5,7-9) lo sconosciuto di cui ha parlato il profeta Isaia ha un none, Gesù, il Figlio di Dio, il Sommo Sacerdote che “ha preso parte alle nostre debolezze” e che “divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.

La conclusione dell’Autore della Lettera è un invito ad “accostarci con piena fiducia al trono della grazia (la croce di Gesù?)  per ricevere misericordia e trovare grazia. Completato l’ascolto della parola di Dio con la lettura della passione di Gesù, narrata da Giovanni, il discepolo amato (Gv 18,1-19,42), dove Gesù muore “compiendo” quanto il Padre che ama il mondo gli aveva chiesto e quanto le antiche Scritture avevano detto di lui (“Tutto è compiuto”), siamo invitati a rivolgere al Padre una preghiera di supplica per il mondo intero. Noi non siamo in grado di portare, come ha fatto Gesù, il peso del male che avvilisce l’esistenza degli uomini e delle donne che abitano con noi la terra, possiamo però implorare dal Padre che la morte di suo Figlio continui a “guarire” l’umanità dalla malattia mortale del male, che provoca e la tempo stesso si alimenta ai peccati degli uomini, compresi i nostri.

Ora siamo finalmente pronti ad accogliere, per “adorare” (esprimere la nostra fede e la nostra gratitudine) Colui che sta sulla croce.

Quest’anno non ci è possibile manifestare a Gesù crocifisso la nostra gratitudine, andando verso di lui, per sfiorarlo con una carezza o onorarlo con un bacio. Lo farà soltanto il Vescovo celebrante. Compirò questo gesto portando con me al Signore crocifisso la sofferenza di tanti di noi, di chi ha perso persone care, di chi sta patendo non solo il virus, ma anche altre dolorose malattie che minacciano la loro vita, anche se ancora giovane, di chi patisce la fatica o, addirittura, la rottura delle relazioni più care, sulle quali aveva investito la propria vita, di chi non riesce guadare con fiducia, per sé e per la propria famiglia, al futuro perché rimasto senza lavoro o con un’occupazione troppo precaria.

Porterò con me dal Signore crocifisso anche la generosa dedizione con la quale tante persone si sono prese cura di chi era sofferente o in difficoltà. Porterò con me, le vostre speranze, le attese, che portate nel cuore.

Conclusa la celebrazione lasceremo la chiesa in silenzio. Il nostro non è il silenzio di persone desolate, di persone che non hanno speranza, ma è il silenzio di coloro che attendono la risurrezione di Gesù, del loro Signore, di color che attendono il  compimento della sua promessa che non ci avrebbe lasciati soli, perché sarebbe restato con noi tutti i giorni, anche in questi dolorosi giorni della pandemia, fino alla fine del mondo.