V domenica di Pasqua (2 maggio 2021)

Nel vangelo della quinta domenica di Pasqua (Gv 15,1-8), Gesù, per segnalare quanto è decisiva per la nostra vita la relazione con lui (quella avviata e alimentata dalla fede), fa ricorso a ciò che succede nella natura tra la vite e i tralci. In realtà non succede solo tra la vite e i tralci, ma anche con le altre piante e con i fiori…

Proviamo, prima di addentrarci nella comprensione delle parole di Gesù, prestare attenzione a quanto sta accadendo in questa primavere avanzata nella natura che ci circonda: a partire dai nostri giardini fino alle colline, la rifioritura di alberi, di fiori, di viti, di campi è resa possibile da un “legame” (un radicamento) con la terra che “si ridesta” dal sonno dell’inverno. Il legame con la terra non blocca la vita, ma le consente di scorrere negli alberi, nelle viti, nei fiori, garantendo così i frutti di cui sono capaci. Se noi interrompessimo questo legame, la possibilità di portare un qualche frutto sarebbe irrimediabilmente compromessa.

Inoltre, dalla natura veniamo a sapere anche che, perché le piante, le viti, i cespugli dei fiori, siano in grado di portare ancora più frutto, devono accettare una potatura, una “ferita” che non provoca la morte della pianta, del tralcio, del fiore, ma propizia un frutto ancor più abbondante, maggiormente apprezzato.

Ritornando alle parole di Gesù: lui è la vite che garantisce a noi, i tralci, la possibilità di portare frutto. A una condizione, che anche noi come i tralci restiamo “legati” a lui («come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vita, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci»). Diversamente anche la nostra vita, come il tralcio reciso dalla vite, inaridisce, non serve a nulla, può diventa addirittura ingombrante.

Gesù, con l’immagine della vite e i tralci, ci avverte che la posta in gioco è altissima, perché si tratta della nostra esistenza, della possibilità che la nostra vita sia come un tralcio che produce un grappolo di buona uva, che consentirà di gustare un vino che, come recita il salmo 104, “rallegra il cuore dell’uomo”.

Gesù ci segnala anche che questo accadrà se noi ci “legheremo” a lui (“dimoreremo in lui”) con la fede, un legame che non mortifica la nostra libertà, non anestetizza i nostri desideri, non delude le nostre speranze.

Gesù ci dice, infine, altre due cose. La prima: al “Padre suo” sta a cuore che la nostra vita non diventi come un tralcio rinsecchito, incapace di produrre buoni frutti. La seconda: il “Padre suo”, come un esperto e saggio agricoltore, si prende cura della vite, la mette in condizione di essere feconda, operando delle “potature” («Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto»), che se inizialmente procurano sofferenza, come la potatura fa soffrire il tralcio, consentono però, sono destinate a garantire frutti più generosi.

L’implicito invito che proviene dal riferimento a eventuali “potature” da parte di Dio Padre, l’agricoltore («Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto») è a non considerare le diverse “potature” che la nostra libertà, i nostri desideri e i nostri progetti possono subire, come una ferita mortale, ma come un’opportunità per una più generosa fecondità della nostra vita.

Nel riferimento alla vite con i tralci proposto da Gesù c’è anche il riferimento alla “tragica” eventualità che anche un tralcio che resta innestato nella vite possa non portare i frutti attesi dall’agricoltore («Ogni tralcio che in me non porta frutto, [il Padre mio] lo taglia»).

Questo accade quando il legame della fede non incide in profondità nella nostra esistenza, non plasma i nostri desideri, non indirizza l’esercizio della nostra libertà.

L’apostolo Giovanni nelc testo della sua prima Lettera proposto dalla liturgia (1Gv 3,18-24) chiarisce a quali condizioni il legame che ci tiene uniti a Gesù è fecondo, generatore di furti buoni: quando osserviamo il comandamento di Dio Padre, che ci rinvia a Gesù suo Figlio («crediamo nel nome del Figlio suo Gesù») e ci chiede di operare a favore degli altri («non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità»).

Perché la parola di Gesù non cada nel vuoto, perché l’immagine della vite con i tralci e con l’agricoltore proposta da lui non resti solo un’immagine suggestiva, ma ci solleciti ad agire, a tradurla nella nostra esistenza di credenti, al Padre, che svolge il ruolo decisivo dell’agricoltore perché “ ci ha inserito in Cristo come tralci nella vite” (dalla preghiera della Colletta) e perché “ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”), abbiamo chiesto di non lasciarci mancare il suo dono (“confermaci nel tuo Spirito”), perché siamo in grado di prenderci cura gli uni degli altri (“amandoci gli uni gli altri”), anticipo, inizio, di una nuova umanità, tanto desiderata soprattutto in questi tempi che ci riservano dolorose potature.