Cosa può dire a noi, discepoli di Gesù Risorto, il suo ritorno al Padre che celebriamo nella solennità dell’Ascensione? Ci dice tre cose.
La prima fa riferimento ai 40 giorni di cui parla Luca, l’autore degli Atti degli Apostoli (cfr At 1,1-11), durante i quali Gesù “si mostrò ai discepoli vivo… e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio”. Quello che è accaduto in quei 40 giorni riguarda anche noi oggi, il nostro cammino di credenti, perché Gesù anche a noi oggi “si mostra vivo”, anche a noi “parla del regno di Dio”, ci parla cioè di un Dio che manifesta la propria signoria prendendosi cura dei suoi figli, con un amore insuperabile, dal quale niente e nessuno riuscirà a separarci.
Mai come in questi giorni abbiamo bisogno di sapere che c’è Qualcuno che si prende cura di noi, che il Signore non si è assentato dal mondo, perché continua a camminare con noi (questo è il senso della sua promessa: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, risuonata nel brano del vangelo appena proclamato, Mt 28,16-20), è all’opera, ci rivolge la sua parola, non per distrarci dalle tante sofferenze che intristiscono la nostra vita, nemmeno per coprire le nostre paure, ma per aprire un percorso, una strada alle nostre speranze ferite, la strada del riscatto dal male, dell’azione solidale, della revisione sapiente delle nostre scelte di vita, la strada che ci consenta non solo di non soccombere all’aggressività del virus, ma anche di riscoprire e ricuperare quella sapienza che ci permette di costruire un’esistenza nuova, realmente all’altezza della nostra umanità.
La seconda cosa ci è suggerita dalle parole di Gesù risorto ai discepoli, parole che risuonano come un mandato: “di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (così nel testo degli Atti degli Apostoli proclamato nella prima lettura) e “andate dunque fate discepoli tutti i popoli” (nel vangelo di Matteo).
Con le sue parole Gesù dice a noi, personalmente e come sua Chiesa, come comunità cristiane: “Adesso tocca a voi parlare del regno di Dio, di Dio che ama questa umanità messa in ginocchio dal male!”.
A noi non è chiesto di sostituire Gesù, di “fare Gesù”, perché noi non siamo Gesù, non siamo all’altezza di Gesù; è chiesto invece di essere testimoni, di essere persone che con la loro esistenza “parlano” di questo Dio che continua ad agire per e con amore nei confronti di tutti, senza distinzione, persone che “parlano” di Gesù risorto e dicono che Gesù non è un bel ricordo da custodire, perché Lui è vivo, è all’opera; persone che dicono che dare credito a Gesù, alla sua parola, lasciarlo agire nella nostra vita, imparare da lui la sapienza della vita, è un bene grande e conveniente.
Stiamo vivendo giorni dove, con stupore e commozione, abbiamo visto all’opera persone, negli ospedali, nelle strutture di assistenza degli anziani, nelle case, nei centri operativi della carità, che hanno agito con una passione per la vita degli altri, delle persone colpite dal virus, che si è spinta, per molti di loro, “fino alla fine”, fino al dono della propria vita. Queste persone, anche se non lo hanno mai nominato, ci hanno parlato di Dio che si lascia toccare il cuore dalla sofferenza degli uomini; hanno detto a tutti, anche a noi discepoli del Risorto, che i devastanti effetti collaterali del virus e quelli di altre pandemie (quelle dell’indifferenza, dell’individualismo, dello spreco…) si possono contrastare con successo solo prendendosi cura gli uni degli altri.
Allora impariamo da questa persone come onorare il mandato di Gesù di essere suoi testimoni nella storia degli uomini.
Della terza cosa ci parla l’apostolo Paolo nell’augurio ai cristiani di Efeso, che abbiamo ascoltato nel testo della seconda Lettura (cfr Ef 1,17-21): che possiamo comprendere a quel speranza Dio ci ha chiamati , risuscitando Gesù. La solennità dell’Ascensione di Gesù ci ricorda che abbiamo la possibilità di contare nella nostra vita, sempre, anche quando questa è aggredita, come in questi giorni, dal male o ferita dalla malattia e dal dolore, su una speranza “forte”, legata alla destinazione della nostra esistenza: noi prenderemo parte alla risurrezione di Gesù; Gesù condividerà con noi la sua vittoria sulla morte.
Si tratta di una speranza decisiva, che però chiede di essere riconosciuta, compresa, perché si possa compiere quanto abbiamo chiesto al Padre nella preghiera iniziale della Colletta: “vivere nella speranza di raggiungere Gesù, nostro capo nella gloria, accanto a Lui”. Una speranza riconosciuta in ogni circostanza della vita, anche quando percorreremo l’ultimo tratto della nostra esistenza sulla terra.
Permettetemi di parlare di questa speranza con un episodio che ho vissuto ormai molti anni fa, ma che non ha perso l’impatto in me di quel momento in cui è accaduto e che, grazie al quale, ho compreso e apprezzato ancora di più la portata della speranza cristiana, di cui da tanti anni parlavo da insegnante ai miei studenti.
Un domenica sera, mentre ero nell’Ospedale cittadino per far visita a persone amiche ammalate, ho intravisto in una stanza un mio compaesano che conoscevo bene. Dopo un saluto, alla mia domanda sulle sue condizioni di salute, mi rispose: «Lo sto aspettando». Mentre mi diceva queste parole con lo sguardo rivolto al piccolo crocifisso alla parete della stanza. In quello sguardo non ho trovato né risentimento, né tristezza, né la resa di chi ormai sa come andrà a finire, ma una grande e dolce serenità. Lo sguardo di quell’uomo, malato terminale di tumore, al crocifisso, mi ha fatto comprendere e apprezzare, più di ogni libro sulla speranza, quale tesoro rappresenta per la nostra vita quella speranza alla quale siamo stai chiamati da Dio Padre, con la risurrezione di Gesù.
Penso spesso a quell’incontro e alle parole di quella persona, grato al Signore, a lui.