L’evangelista Luca, introducendo il racconto del battesimo di Gesù al fiume Giordano (3,15-16.21-22), riferisce che «il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni Battista, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo», cioè se potevano contare su di lui per realizzare il loro desiderio di libertà (dal dominio romano) e il loro desiderio di un’esistenza che vedesse finalmente compiute le promesse di Dio, cui i Profeti avevano dato voce (cfr quanto Isaia annuncia nella prima lettura, 40,1-5.9-11).
Giovanni chiarirà che non è lui il Messia da attendere, ma un altro, “più forte di lui”, cioè più capace di lui di realizzare le attese del suo popolo.
La persona cui fa riferimento Giovanni è tra i tanti che sono venuti al Giordano per ricevere da lui un battesimo di purificazione. Questa persona si chiama Gesù ed è riconosciuta, da una “voce dal cielo” (quella di Dio), come «il Figlio mio, l’amato; in te ho posto il mio compiacimento».
Anche l’apostolo Paolo, nello scritto indirizzato al discepolo Tito (2,11-14;3,4-7) proposto dalla seconda Lettura, parla di un’attesa degli uomini, l’attesa del compimento di una speranza qualificata come “beata”, apprezzabile, perché in grado di assicurare la “vita eterna”, cioè un’esistenza sottratta al potere devastante dell’empietà e alla deriva dei deludenti “desideri mondani” (quei desideri che restano confinati nel limitato orizzonte del mondo che passa e della vita che scorre inesorabile verso la fine. Per questo non sono in grado di assecondare pienamente l’attesa degli uomini).
Paolo associa la possibilità di attendere il compimento di questa “fortunata speranza” alla comparsa della grazia di Dio che “porta la salvezza” e che insegna agli uomini a “rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo (nel limitato orizzonte del mondo e del tempo) con sobrietà, giustizia e con pietà” (l’esatto contrario di un’esistenza prigioniera dell’empietà e dei deludenti desideri mondani).
Proseguendo nel suo scritto l’apostolo Paolo ci rivela che “la grazia” è una persona, Gesù Cristo,, il quale, per riscattare gli uomini dalla devastante iniquità (“riscattarci da ogni iniquità”) e per appassionarli alle opere buone della “sobrietà, giustizia e pietà”, ha messo in gioco la propria vita (“ha dato se stesso”).
L’offerta che Gesù fa di se stesso, della propria vita, è il punto d’arrivo di una “discesa” iniziata con quello che Paolo presenta come “svuotamento di se stesso” che ha portato il Figlio di Dio a diventare simile agli uomini, ad assumere la condizione di schiavo e a farsi obbediente fino alla morte di croce (cfr Fil 2,7ss); discesa, proseguita nel battesimo, chiesto con insistenza e ricevuto nella grande depressione del fiume Giordano (circa 400 metri sotto il livello del mare) e conclusa sulla croce con una morte che lo delegittimava definitivamente agli occhi del suo popolo e metteva a tacere per sempre la “voce dal cielo” (quella di Dio) che lo aveva proclamato “Figlio amato”.
Quanto Paolo ha scritto al discepolo Tito riguarda anche tutti noi, che stiamo celebrando il battesimo di Gesù, perché ci ricorda il benefico impatto che Gesù può avere sulla nostra esistenza, quella che stiamo trascorrendo in questo mondo: ci insegna a vivere in questo mondo, in questi tempi che non risultano certamente rassicuranti, ospitali, non assecondando l’empietà, il male né i desideri che seducono e ingannano, ma dando credito a quella speranza forte, “apparsa” con Gesù (“la grazia di Dio”), più forte dell’empietà e capace di smascherare l’inganno dei desideri mondani.
Perché questo sia possibile abbiamo chiesto al Padre di aiutarci a vivere sempre nel suo amore, a lasciarci guidare nella vita di ogni giorno dal suo amore. Questo accadrà se, come chiederemo al termine della celebrazione, ascolteremo come discepoli Gesù, indicato dal Padre come il Figlio, nel quale Lui si riconosce e che gode della sua fiducia.