Domenica delle Palme (25 marzo 2018)

Osserviamo alcune persone coinvolte nella morte di Gesù.

Simone di Cirene ci ricorda che le modalità della sequela di Gesù non siamo sempre noi a deciderle, perché spesso ci sono indicate dalle circostanze della vita, dove lo spazio della libertà sembra forte-mente ridotto, se non addirittura compromesso. Quelle circostanze che “ci costringono” a portare la croce dietro a Gesù, costituiscono un appello alla nostra libertà, perché decidiamo di non fuggire, di non rinunciare a seguire il Signore, ma portiamo “con” lui, “dietro” a lui la croce di una sequela che ha assunto un volto inedito, sconcertante, una sequela che s’impara dalle cose che “patiamo” nella vita. Proprio come ha fatto Gesù (cfr Eb 5,8).

Lo sguardo del Centurione sa cogliere Dio, i segni della sua presenza, anche nelle situazioni di vita più disperate, come la morte. Lo sa cogliere come un Dio, al quale ci si può rivolgere e dire il proprio sgomento e smarrimento; un Dio più forte della morte, anche in questo modo, perché lo possiamo incontrare anche lì. E’ uno sguardo libero cioè da ogni pregiudizio, perché non decide anticipatamente come Dio deve essere, cosa deve fare per convincere, ma lascia a Dio la libertà di rendersi presente; per questo diventa capace di riconoscere il volto di Dio in ogni situazione, anche in quelle che sono segnate dalla morte, dove sembrano perse le sue tracce o del tutto impensabile la sua presenza e la sua azione.

Le donne. I diversi verbi che illustrano i movimenti delle donne – seguire, servire, guardare – rappresentano la figura completa dell’esistenza cristiana. Un’esistenza alimentata dal desiderio di “vedere il volto di Dio” («Il tuo volto, o Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto», [Sal 27,8]). Gesù crocifisso è il volto che Dio mostra al mondo (l’evangelista Luca, a proposito della morte di Gesù, parla di “spettacolo”: «Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo…», 23,48).

La croce di Gesù è principio di un’autentica conoscenza di Dio: «Lì cessa il segreto di Dio e inizia la sapienza cristiana…Le sue ferite mostrano il mistero di Dio nella sua passione incredibile, nel suo eccessivo amore per noi. Guardandole, i discepoli gioiscono: vedono il Signore (Gv 20,20)» (S. Fausti).

Il modo con cui il cristiano “tiene fisso lo sguardo” su Gesù crocifisso (cfr Eb 12,2) è quello di un’esistenza caratterizzata dallo stare con lui, dal vivere come lui ha vissuto e insegnato, dal vivere di lui, fino a riconoscere con Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Scrive un maestro spirituale: «nella fede cristiana la relazione personale con il Signore costituisce la base più importante, anzi fondamentale, della vita in Cristo nuova…La fede in Cristo diventa quindi l’esistenza della mia relazione reciproca con lui: dimorare in lui e lui in me, unirmi a lui, vivere in comunione con lui nello Spirito, vivere in lui, è questo il criterio di una fede sana e reale…» (Matta El Meskin).

Giuseppe d’Arimatea. L’evangelista Marco dà rilievo al suo coraggio, che si manifesta nell’andare da Pilato per chiedere il corpo di Gesù e nell’uscire allo scoperto, lui che, come segnala Gv 19,38 «era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei». Nell’azione di Giuseppe d’Arimatea ritroviamo anche un’attenzione piena di amore per Gesù, simile a quella delle donne che vanno al sepolcro con i profumi (cfr Mc 16,1). Quest’uomo, che attende il Regno di Dio, ottiene in dono il corpo di Gesù («Questo è il Regno: il Figlio dell’uomo definitivamente consegnato nelle mani degli uomini» (S. Fausti). Giuseppe d’Arimatea ricorda ai discepoli di Gesù che il Regno è donato a chi osa chiedere il corpo di Gesù, realtà piena dell’amore di Dio per gli uomini e della consegna dell’uomo a Dio e ai fratelli. Il corpo crocifisso di Gesù, offerto a chi aspetta il Regno di Dio «è dono grande e prezioso – somma di tutti i doni. Questo corpo è epifania di Dio, martirio di un amore più grande di ogni male e di ogni morte» (S. Fausti).

Nell’atteggiamento di Giuseppe d’Arimatea troviamo quella che costituisce la dimensione fondamentale della vita cristiana: l’attesa del Signore. Il cristiano è colui che vive attendendo il Signore, colui che “non vive alla giornata”, ma alimenta un’attesa che conferisce al tempo della vita una qualità nuova, perché gli indica un approdo. L’attesa del Signore plasma lo spessore umano di tutta l’esistenza del cristiano.