E’ convincimento comune che un popolo senza memoria è un popolo perduto, perché diventa come un albero senza radici.
La memoria accompagna la vita del popolo d’Israele fin dalla sua costituzione come popolo libero dalla schiavitù d’Egitto. Mosè, prima di congedarsi al suo popolo, che aveva condotto alle porte della terra promessa, lo invita più volte a “ricordare”, a “fare memoria” di quanto Jahvè aveva compiuto a suo favore, perché solo grazie a questa memoria avrebbe potuto godere pienamente della libertà in quella terra.
La memoria entra anche nella famiglia ebraica, quando il padre, sollecitato dai figli, racconta loro del passato di schiavitù in terra d’Egitto e di liberazione per l’intervento di Jahvè (cfr Es. 13,11-16)
La memoria della Shoah presenta tratti drammatici, perché fa riferimento alla violenza più feroce e disumana, quella dello sterminio, programmata, giustifica e coperta da tanta omertà, contro il popolo ebraico.
La memoria della Shoah non riguarda solo il popolo ebraico, ma ci riguarda tutti, perché mostra fin dove gli uomini possono spingersi quando non ci si riconosce più come appartenenti a una famiglia, quella dell’umanità, dove ogni persona, con la sua storia, cultura e il suo credo religioso, merita un rispetto incondizionato e un’accoglienza piena di fiducia, che non possono essere sospesi per nessuna ragione, nemmeno da quella che attinge a Dio.
Senza voler cedere alla retorica: ogni persona rappresenta quella terra sacra, dove, per entrare, ci si deve togliere i calzari.
Il gesto che stiamo compiendo oggi – la condivisione della memoria della Shoah – vuole ribadire questo riconoscimento. Per la comunità cristiana rappresenta anche il riconoscimento di un legame singolare, unico, con il popolo ebraico, un legame che è stato ricordato e ribadito da Papa Francesco nella recente visita alla Sinagoga di Roma, quando, accennando alle radici ebraiche del cristianesimo, ha concluso, in sintonia con la Dichiarazione del Concilio Vaticano II sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra aetate), che: «ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune (cfr Dich. Nostra aetate, 4), sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro».