«Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15). A prendere questa decisione sono alcuni pastori che, mentre facevano la guardi di notte al loro gregge per difenderlo dai ladri e dagli animali predatori. I Pastori si erano spaventati di fronte a una luce che li aveva avvolti e della quale non conoscevano la provenienza.
A disinnescare la paura dei pastori erano state le parole di un angelo che li invitava a non avere timore perché annunciava “una grande gioia”: la nascita a Betlemme, la città di David, di un Salvatore per loro, per la faticosa vita di pastori. L’angelo aveva dato loro un’indicazione per rintracciare il Salvatore: «Troverete un bambino avvolto in fasce adagiato in una mangiatoia». Dopo le parole dell’angelo un altro avvenimento sorprendente: «una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio».
I primi destinatari della bella notizia della nascita di un Salvatore per gli uomini, sono dei pastori, persone che per il tipo di lavoro che svolgevano, dura pieno di pericoli, non erano certamente inclini a fantasie né disponibili a dare credito a improbabili “belle” notizie. Non erano nemmeno apprezzati come fedeli credenti.
Ci sentiamo rappresentati da questi pastori. Anche noi, di questi tempi, siamo costretti a “fare la guardia” alla nostra vita, alla vita dei nostri cari, che sentiamo minacciata da più parti, da avvenimenti, situazioni, personali ed epocali. Anche per noi il “mestiere” di pastori, di custodi della vita, nostra e di chi ci è caro, sta diventando sempre più impegnativo, a tratti duro, pieno di insidie.
L’insidia più difficile da contrastare è il venir meno della speranza, della speranza che sa fronteggiare i “rovesci” della vita, le sfide e le sconfitte della vita. Sembra che anche la stessa pratica della fede non sia immune da questa insidia, tanto da scomparire dall’esistenza di un numero sempre più crescente di persone, di ogni età o da apparire una pratica “a bassa densità”, a intermittenza.
La decisione dei pastori di andare a vedere, a rendersi conto di persona se le parole dell’angelo non raccontavano una bella favola né erano una proiezione di un loro desiderio, il loro andare “senza indugio”, possono indicarci il percorso di un’esistenza che non soccombe alle derive che la affliggono.
I pastori ci invitano ad andare da questo bambino, il Figlio di Dio, che ha lasciato la casa del Padre, che “è nato per noi” e “abita” con noi, uomo tra gli uomini, a cercarlo nel buio delle notti della nostra vita ferita dal male, nella notte di questi tempi, dove l’odio, dell’intolleranza, l’ingiustizia sembrano “farla da padroni”, perché possiamo renderci conto che gli angeli non ci hanno ingannato quando hanno parlato di un bambino, la cui nascita è motivo di gioia e di speranza per tutti, perché anche noi possiamo raccontare di un Dio che non abbandona i propri figli a se stessi, alle tante follie che le cronache di ogni giorno ci segnalano, ma che vuole riscattare la loro esistenza dal male che avvelena le relazioni tra le persone, tra le nazioni, che oscura il futuro, impoverendolo di speranza.