Giorno di Pasqua (12 aprile 2020)

«Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele» (Lc 24,21). Questa è la conclusione amara di Cleopa, uno dei due discepoli che Gesù incontra sulla strada verso Emmaus. In quel “speravamo” c’è tutta la storia della loro amicizia con Gesù, iniziata proprio sotto il segno di una grande speranza e conclusa con una clamorosa smentita di questa speranza. La tristezza del loro volto segnala le disastrose conseguenze della morte di Gesù per loro e per la loro vita. Perché succede proprio così con le nostre speranze e quando queste vengono deluse, perché se è vero che finché c’è vita c’è speranza, è altrettanto vero che finché si ha una speranza si è in grado di provvedere bene alla propria vita.

La morte di Gesù aveva provocato un terremoto nella vita dei discepoli, dagli effetti devastanti: la paura che li porta a chiudersi in casa, la perdita della speranza («Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele»); l’incapacità di riconoscere Gesù quando si accosta a loro. Dopo la morte di Gesù quella dei discepoli è diventata un’esistenza dove il cammino della speranza sembra definitivamente compromesso.

Gesù Risorto incontra i due discepoli viandanti in questa situazione e con pazienza riapre un passaggio alla speranza. Lo fa anzitutto correggendo la lettura riduttiva di lui e della sua vicenda. Per i discepoli Gesù è solo un “profeta, potente in opere e in parole”, un profeta sul quale, una volta che è stato tolto di mezzo (come succede ai profeti scomodi), non si è più possibile investire le proprie speranze.

Della vicenda di Gesù viene fatta una cronaca puntuale, ma dalla quale non emerge nessuna “buona notizia”. Per questo il racconto non può che concludersi con l’amara affermazione: «Ma lui non l’hanno visto».

I discepoli sono avvicinati da Gesù, il quale “spiega loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” e quando si mette a tavola con loro “ prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo dà loro” (cfr Lc 24, 27.30).

E la situazione dei discepoli cambia. L’evangelista Luca indica i segnali del cambiamento: Gesù non è più il viandante sconosciuto, lo straniero, ma il Signore. Il riconoscimento dei discepoli non riguarda solo l’identità di Gesù, ma anche la comprensione della sua vicenda, che non appare più deludente, ma capace di dare speranza.

«Non ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». I discepoli riconoscono che il loro “cuore” è stato profondamente segnato dall’ascolto della parola di quello sconosciuto. Il loro non è più un cuore abitato da una speranza delusa, ma è un cuore vivace, in grado di sperare nuovamente. Da qui la decisione: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (Lc 24, 33). Il senso del cammino dei discepoli si capovolge: all’inizio risultava una fuga, alla fine un ritorno. Un ritorno con la premura di raccontare agli altri discepoli quanto è accaduto, segno di una speranza rinata, perché ha riconosciuto in Gesù, il Crocifisso risorto.

Ci troviamo a vivere giorni dove ci riconosciamo nella tristezza dei due discepoli. Anche noi abbiamo sperato che quanto è iniziato lontano da noi non succedesse qui da noi, abbiamo sperato che l’epidemia fosse un fenomeno circoscritto nelle conseguenze e limitato nel tempo; tante persone ammalate hanno sperato di guarire; tanti tra di noi hanno sperato che i propri cari ammalati potessero ritornare a casa; tanti operatori sanitari e tanti volontari hanno sperato che il loro generoso servizio fosse di aiuto alle persone colpite dal virus. Stiamo sperando che il futuro che ci attende non sia così devastato come temiamo.

La Pasqua che stiamo celebrando, anche se in condizioni del tutto impreviste, ci assicura che Gesù risorto, con la sua parola, ci raggiunge sulla strada dolorosa che stiamo percorrendo, cammina con noi; arriva senza che ce l’aspettiamo, in modi misteriosi e spesso sorprendenti, c’interpella, corregge le nostre letture parziali della vita, di Dio, della sua azione. In questo modo riapre il passaggio alla speranza, per la vita che trascorriamo in questo mondo e per quella che ci attende in futuro, quella del “grande giorno che non ha sera”.

Proprio perché desideriamo mantenere aperto il cammino della speranza, prestiamo ascolto anche noi, come i due discepoli in cammino per Emmaus, alla parola del Risorto, perché anche il nostro cuore intristito e impaurito, ritorni ad ardere, a essere un cuore vivace che guarda con speranza al futuro, perché i nostri occhi scorgano il Signore presente e all’opera anche in questi giorni tristi, perché siano capaci di intraveder le possibilità di bene che questa situazione sta indicando a ciascuno di noi, personalmente,  alla nostra comunità civile e a noi discepoli del Risorto. Questo perché anche il nostro ritorno alla “Gerusalemme” della vita quotidiana, del lavoro, delle relazioni, delle tante attività che ci fanno apprezzare la vita e questo territorio, sia il ritorno di persone “risorte”.

Questo è il mio augurio di buona Pasqua che rivolgo a ciascuno di voi, alle vostre famiglie e alle vostre comunità. E chiedo al Signore Risorto, con fiducia, che dia compimento a questo augurio.