Quello che sta succedendo in questi giorni suscita una certa sorpresa. Abbiamo intrapreso una specie di mobilitazione per creare quella “atmosfera natalizia” che, almeno per qualche giorno, dovrebbe mitigare il clima pesante, fatto di paura, di incertezza, di confusione, che da quasi due anni avvilisce la nostra esistenza. La mobilitazione è alimentata dai mezzi della pubblicità, impegnati a segnalare con tanta insistenza le molte cose che potrebbero garantirci un Natale sereno anche in tempo di pandemia.
La sorpresa, se ancora si può parlare di sorpresa, è che da tempo non si tiene più in alcuna considerazione chi è veramente titolato a offrire serenità e speranza. Per dirla con una battuta: facciamo festa dimenticandoci del festeggiato; o, al massimo, confinandolo nel presepio, che almeno per alcuni giorni garantisce nelle nostre case la presenza di un segno religioso.
La parola di Dio percorre una strada diversa per offrirci le ragioni di una serenità, di una speranza che non ha il respiro corto di alcuni giorni, ma che si distende per il resto dei giorni e che regge la sfida della situazione che stiamo vivendo.
Il profeta Geremia (Ger 33,14-16) ci parla di una promessa che il Signore intende onorare, la promessa di una persona (“un germoglio giusto”), in grado di operare la giustizia. Sarà proprio l’azione di questa persona che darà serenità (“Gerusalemme vivrà tranquilla”).
Gesù, nel vangelo (Lc 21,25-28.34-36), dopo aver delineato uno scenario inquietante, ma realistico, nel senso che rappresenta quanto continua ad accadere nel mondo e tra gli umani, parla della sua venuta, come Figlio dell’uomo, come colui cioè che assicura la liberazione. Grazie a questa presenza lo scenario cambia ed è possibile non restare più schiacciati dalla paura (“risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”).
Gesù ci rivolge poi un duplice invito. Con il primo raccomanda la vigilanza su noi stessi. “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita…”.
Il senso dell’invito a vigilare: evitare che il cuore si appesantisca, cioè cerchi il proprio riposo nello stordimento (ubriachezze) e in un darsi tanto da fare (affanni della vita) che servono per non pensare. Una ricerca destinata a fallire perché l’uomo si riposa e gioisce solo in ciò per cui è fatto («Riposeremo in te nel sabato della vita eterna», S. Agostino) e si lascia trascinare in un modo di gestire gli impegni della vita che toglie serenità e lucidità nel valutare le cose e le persone.
Con il secondo ci sollecita a vegliare, a vigilare e indica come attivare questa vigilanza: “vegliate e pregate”.
La parola di Dio ci mette al riparo dal rischio di porre l’Avvento a nostro servizio, di piegarlo a quell’immagine di tempo promettente per la nostra vita che apprendiamo altrove e non dalla fede, la quale suggerisce di aprire il nostro cuore a Gesù Cristo, che solo può rendere compiuta la vita, invita a implorarlo e attenderlo.
Come vivere i giorni della nostra esistenza attendendo il Signore, preparandoci a incontrarlo?
Alla luce delle parole di Gesù attendere il Signore” suggerisce un modo di vivere che coltiva una lucida e attenta sobrietà nei confronti della vita, con i suoi beni e le sue occupazioni, che pratica la preghiera come veglia, attesa, abitata dalla ricerca del Signore (“il tuo volto Signore io cerco”), dal desiderio di stare con il Signore, di conoscerlo sempre più a fondo, di beneficiare della sua presenza pacificante e liberante dai falsi desideri e dai cammini ingannevoli. Una preghiera così plasma lo spessore umano dell’esistenza, ci rende persone affidabili, attente a se stesse e agli altri, con lo sguardo teso a scoprire la presenza del Signore nelle trame, spesso intricate della nostra vita e della storia degli uomini, persone pazienti e serene, anche quando la vita in tanti modi ci mette alla prova.
Anche nell’augurio rivolto da Paolo alla comunità di Tessalonica («Il Signore vi faccia crescere nell’amore fra voi e verso tutti per rendere saldi i vostri cuori», 1Ts 3,12-4,2) è indicato come trascorrere i nostri giorni: nella pratica di un amore che non seleziona le persone sulla base delle appartenenze, degli interessi, della convergenze (“verso tutti”). L’amore cui fa riferimento l’apostolo Paolo non si identifica con la fluidità dei sentimenti e delle emozioni che non resistono alla prova del tempo e alle fatiche della vita, ma in quella decisione della libertà che dà solidità ai sentimenti e alle emozioni e che si prende cura delle persone, del loro bene.
La disponibilità di Davide, un giovane della nostra Chiesa di Senigallia, a intraprendere con decisione la tappa del cammino vocazionale che lo vedrà ancor più impegnato a “diventare un fedele ministro di Cristo e del suo corpo che è la Chiesa” attesta concretamente che Gesù rappresenta la salda speranza della nostra vita e che seguirlo non è rinunciare a gustare la vita, ma apprezzarne la pienezza.