III domenica di Quaresima (7 marzo 2021)

Rivolgendoci al “Signore nostro Dio” nella preghiera della Colletta, prima di presentare la nostra richiesta («donaci la sapienza della croce, perché in Cristo tuo Figlio diventiamo tempio vivo del tuo amore») abbiamo riconosciuto che Lui, “riconduce i cuori dei suoi fedeli (il nostro cuore, quindi) all’accoglienza delle sue parole”.
Il riconoscimento è decisivo, in particolare per questi tempi nei quali la nostra esistenza è invasa da una smisurata quantità di parole. Sono le parole dei “media”, stabilmente insediate nelle nostre giornate (in ogni momento e in ogni luogo), senza interruzioni; sono le parole dei sempre più numerosi “opinionisti”, con la rivendicazione di un ascolto delle loro letture sui fatti che accadono; sono le parole urlate che si rincorrono su i “social”, superficiali e piene di rancore.
In questa babele di comunicazione, le parole non urlate, non sbattute in faccia, che non hanno fretta di essere dette, che inducono a riflettere, fanno fatica a essere ascoltate. Tra queste parole troviamo anche le parole che Dio ci rivolge.
Tornando alla preghiera della Colletta, il riconoscimento che il Signore riconduce i nostri cuori a un ascolto accogliente della sua parola, attesta anzitutto l’apprezzamento della qualità delle sue parole, anche di quelle scomode, perché non corrispondono pienamente alle nostre attese, contrastano con i nostri punti di vista. Attesta poi il riconoscimento dell’azione di Dio, della sua grazia, che si esprime proprio nel “ricondurre” (convincere, persuadere) i nostri cuori a dare credito alle sue parole, a organizzare la nostra esistenza sul solido fondamento (“sulla roccia” direbbe Gesù) delle sue parole.
I tre testi biblici, proclamati nell’Eucaristia di questa terza domenica di Quaresima ci offrono le parole di Dio: la parola dei comandamenti (cfr Es 20,1-17); la parola della croce di Gesù (1Cor 1,22-25) e la parola che Gesù comunica anzitutto con il gesto clamoroso e di rottura compiuto nel Tempio di Gerusalemme (Gv 2,13-25).
La parola di Dio che è stata appena proclamata è una parola scomoda, una parola che chiede un cuore disponibile all’ascolto, libero da pregiudizi, dalla pretesa di decretare ciò che è sapiente, ciò che è stolto e dall’abitudine di piegare la pratica della fede, il rapporto con Dio a nostra utilità.
Un cuore libero dai pregiudizi lo chiedono anzitutto i comandamenti, dati da Dio al suo popolo (cfr Ia Lettura, Es 20,1-17). Anche i comandamenti di Dio, come le prescrizioni degli uomini sono considerati con il sospetto che impediscono la pratica della libertà. In questi giorni di pandemia le cronache riferiscono di lamenti e di contestazioni nei confronti delle disposizioni governativa,, proprio in nome della libertà individuale.
A liberare il nostro cuore dal pregiudizio che i comandamenti rappresentano un ostacolo alla libertà è Dio stesso, il quale, come ci ha riferito il testo dell’Esodo, proclamato dalla prima lettura, prima di dettare a Mosè i suoi comandamenti, fa un’illuminante premessa, che consente d’interpretare le sue disposizioni non come la volontà di soggiogare a sé il popolo d’Israele, appena da Lui liberato dalla schiavitù d’Egitto, ma come il desiderio di salvaguardare la libertà ottenuta.
Questa la premessa: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2).
I comandamenti, quindi, nell’intenzione di Dio, non sono dei “paletti” posti alla nostra libertà, ma “istruzioni” che la salvaguardano, che le consentono di esprimersi al meglio.
Anche la parola della croce di Gesù che Paolo propone ai cristiani di Corinto («annunciamo Cristo crocifisso», 1Cor 1,22-25) risuona, per qualcuno, come una parola “scandalosa” (i Giudei) e “priva di sapienza”, stolta (i Greci). Anche a noi la parola di Cristo crocifisso appare scandalosa quando come i Giudei («Chiedono segni»), chiediamo segni rivelatori, rassicuranti, perché corrispondono alle nostre attesa, alla nostra immagine di Dio, al nostro modo di intender il suo agire nella storia; quando, come i Greci («cercano sapienza») identifichiamo la sapienza (l’arte del governare, dirigere bene la vita) con la misura delle nostre capacità di pensiero, di comprensione.
S. Paolo ci dice che la parola della croce a cui la fede presta ascolto è l’evento della morte di Gesù, nel quale Dio rivela la sua “potenza” e la sua “sapienza”, sconosciute agli uomini, al loro modo di intendere, d’interpretare la “potenza” e la “sapienza”; ci dice anche che se vogliamo veramente comprendere come Dio agisce da “potente” e da “sapiente”, dobbiamo tenere fisso lo sguardo su Gesù crocifisso e non valutare la sua azione con i nostri parametri, con la nostra immagine della potenza e della sapienza.
La parola del Vangelo (Gv 2,13-25) è costituita da un gesto forte compiuto da Gesù nel tempio di Gerusalemme. L’evangelista Giovanni racconta che Gesù, salito a Gerusalemme, «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e là, seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!»).
Il mercato presente nel Tempio era diverso dai mercati della città, perché gli animali che si vendevano e si compravano lì erano destinati aun atto di culto a Dio, ai sacrifici offerti a Dio, per riparare le proprie colpe e per fare comunione con Lui.
Come interpretare, quindi, l’ingiunzione di Gesù («Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!»?). Gesù vuol dire ai mercanti del tempio e ai Giudei che gli chiedevano conto del suo gesto dissacrante («Quale segno ci mostri per fare queste cose?») che le vittime che intendevano offrire a Dio non servono più, perché ora c’è lui (l’Agnello di Dio, l’aveva presentato così Giovanni Battista al Giordano) e che lui non è la “vittima” che noi offriamo a Dio, ma l’offerta che Dio stesso fa’ a noi. Per questo cambia il rapporto con Dio, un rapporto non più regolato dalla logica mercantile dello scambio (mercanteggiamo la benevolenza di Dio con ciò – preghiere, sacrifici, offerte, azioni buone.. – che gli offriamo), ma regolato dal dono stesso di Dio, del suo amore, un dono che non va strappato dalle mani di Dio, ma ricevuto da Lui.
E del dono del suo amore fanno parte Gesù Cristo crocifisso, i suoi comandamenti, l’unica “potenza”, quella del suo amore, in grado di sconfiggere il male, la morte e l’unica “sapienza”, che consente agli uomini di ben governare la loro esistenza.
A questo punto siamo in grado di comprendere la portata della richiesta avanzata al “Signore nostro Dio” («donaci la sapienza della croce»), e la ragione che l’ha ispirata («perché in Cristo tuo Figlio diventiamo tempio vivo del tuo amore»), cioè perché non ricorriamo ad altro per onorarti, ma facciamo della nostra esistenza raggiunta dal tuo amore nel Figlio crocifisso, più tenace di ogni nostra potenza e più saggio di ogni nostra sapienza, l’unica offerta che tu apprezzi.
La richiesta ci consente di apprezzare questo tempo di grazia che è la Quaresima, tempo in cui disponiamo il nostro cuore (la nostra vita) all’accoglienza delle parole di Dio.

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