Meditazione per gli operatori Caritas (Sabato 7 ottobre 2017)

«Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (S. Giovanni della Croce)

(Mt 25,31-46)

31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». 44Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». 45Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

Leggiamo il testo

Il contesto del racconto evangelico è il cap 25, dove l’evangelista Matteo espone l’ultimo dei cinque discorsi di Gesù, che tratta del compimento della storia, all’interno del quale avviene quello che è chiamato il giudizio finale, che è il tema del nostro testo.

Immaginiamo il racconto come un grande quadro raccolto in una cornice, costituita dalle due informazioni date dall’evangelista. La prima (vv 31-32) apre il racconto e riguarda la venuta del Figlio dell’uomo “nella sua gloria” (la seconda venuta), la sua intronizzazione, il raduno di fronte a Lui di tutti i popoli e la disposizione delle persone decisa da lui: la separazione e la collocazione a destra e a sinistra. La seconda chiude il racconto e riguarda l’esecuzione della sentenza del Figlio dell’uomo (v 46).

Il quadro riporta il processo che il Figlio dell’uomo svolge a carico dei popoli convocati in giudizio. Il dibattimento processuale è un botta e risposta tra il Figlio dell’uomo e i popoli. L’oggetto della comunicazione è costituito da quanto gli interlocutori di Gesù hanno fatto o non fatto nei suoi confronti (“ho avuto fame e mi avete/non mi avete dato da mangiare…”). La valutazione della loro sorte è fatta sulla base del loro comportamento (“Venite… ricevete in eredità il regno preparato da voi fin dalla fondazione del mondo/Via, lontano da me… nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”).

Meditiamo la parola di Dio

A determinare la nostra sorte definitiva sarà il “fare” o il “non fare”, non un fare generico, ma il fare della carità, dell’aiuto ai fratelli più piccoli (più in difficoltà) di Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me/tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli non l’avete fatto a me». La ragione della decisività di questo tipo di fare, quello della carità, è indicata dallo stesso Gesù: perché Gesù si riconosce, si identifica nelle persone che si trovano in difficoltà, che soffrono, li chiama addirittura “miei fratelli”.

Chi nella propria esistenza ha agito guidato dalla carità, ora è nelle condizioni di “ricevere in eredità il regno preparato per loro dal Padre fin dalla creazione del mondo”. Al contrario, chi nella propria esistenza non ha agito guidato dalla carità, ora non è nelle condizioni di ricevere il regno preparato dal Padre.

Nella predicazione di Gesù il “Regno di Dio” indica l’offerta che Dio fa agli uomini del suo amore fedele e forte, più forte del male che aggredisce la loro vita, un amore che crea comunione (l’alleanza) tra Dio e le sue creature, la stessa comunione che Gesù, il Figlio vive con il Padre. “Ricevere il regno preparato dal Padre” significa quindi prendere parte a quanto Gesù risorto vive con Dio Padre.

Con queste parole Gesù chiarisce definitivamente la condizione che aveva indicato alla fine del suo primo e, in qualche modo programmatico, discorso, il discorso della Montagna: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Ora alla luce di quanto ha chiarito Gesù: fare la volontà del Padre suo significa agire, fare, guidati dalla carità.

Una prima conclusione: l’approdo definitivo della nostra esistenza, lo decidiamo noi, da ora, durante la nostra vita sulla terra, perché dipende dal fare o non fare a favore dei poveri, delle persone in difficoltà.

Proprio perché Gesù s’identifica con chi è povero e soffre, il servizio al povero propizia l’incontro con Gesù, che nelle condizioni attuali anticipa quello che sarà il definitivo stare con Lui, come lui stesso ha rivelato ai discepoli («Vado a prepararvi un posto. Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi», Gv 14,2-3).

Una seconda conclusione: l’aiuto solidale che diamo a chi ne ha di bisogno è certamente provocato dalla sua sofferenza, ma, per noi discepoli di Gesù, non costituisce la ragione esaustiva della nostra azione, perché la ragione esaustiva è suggerita dalla fede, che riconosce in Gesù colui che “salva” (dà senso, libera dal male, sconfigge la morte) la nostra vita. Lo dichiara apertamente Papa Francesco in Evangelii Gaudium: «Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società» (n 186).

Avvicinarsi al povero per soccorrerlo dice la qualità della nostra fede in Gesù, quella fede che proprio perché “si rende operosa per mezzo della carità” (come scrive l’apostolo Paolo in Gal 5,6), garantisce il nostro “passaggio” dalla morte alla vita, ci salva (come rivela Gesù a Marta, affranta per la morte del fratello Lazzaro: »Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me (conduce la propria esistenza credendo in me) non morirà in eterno», Gv 11,25).

Una terza conclusione: se a monte del fare della carità sta la fede in Gesù, il rapporto con Lui va coltivato, non come un di più, un diversivo o sostitutivo rispetto all’impegno della carità, ma come la sua ragione d’essere e la fonte che lo alimenta, lo sostiene. L’incontro con Gesù, propiziato dalla celebrazione della memoria della sua Pasqua (l’Eucaristia), dal costante ascolto del Vangelo nella preghiera, rendono il nostro cuore capace di quella compassione con cui Gesù guardava e accostava le persone (come annota l’evangelista Marco: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose», 6,34), ci spingono a esprimere concretamente la nostra compassione, come ha agito il Samaritano nei confronti di un uomo, derubato e percosso a sangue dai briganti, che lo abbandonano mezzo morto, nella parabola raccontata da Luca («Un Samaritano che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui», 10,34), conferisce alla nostra azione la libertà di chi non discrimina le persone bisognose (come ha agito il Samaritano della parabola evangelica, per il quale la persona ferita era straniera).

Il rapporto personale con Gesù entra quindi a far parte di quella “preparazione”, di quella “dote” dell’operatore Caritas, di quella “competenza professionale” che ci consente di svolgere sempre al meglio il nostro servizio di operatori della carità, nella Caritas diocesana e nelle Caritas parrocchiali.

Per vivere la parola di Dio

Il racconto evangelico ci chiede di verificare la qualità del nostro rapporto personale con Gesù, la sua reale incidenza sul “fare” della nostra carità, come lo ispira e lo stile che lo caratterizza. L’obiettivo del discernimento è quello di riqualificare il nostro rapporto con il Signore, nel tempo che vi dedichiamo e nei modi con cui lo viviamo.