Nelle parole del Signore, di cui il profeta Gioele si fa portavoce (cfr prima lettura, Gl 2,12-18) e nelle parole di Paolo a cristiani di Corinto (cfr seconda lettura, 2Cor 5,20-6,2) colpisce il tono appassionato degli inviti rivolti. Il Signore, nello scritto del profeta, per ben due volte, sollecita il popolo d’Israele (e oggi ciascuno di noi) a ritornare a Lui (“Ritornate a me… ritornate al Signore”). A sostegno dell’invito non viene evocata una qualche sanzione (pur legittima, data l’infedeltà del popolo all’alleanza che lo aveva allontanato da Dio), ma la buona disposizione di Dio (“egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore”), disponibile a non tenere in nessun conto il male commesso dal popolo (“pronto a ravvedersi riguardo al male) e a offrire la propria benedizione (“Chi sa che non lasci dietro di sé una benedizione?”).
La passione di Dio per il popolo che si è allontanato da lui lo porta anzitutto a indicargli la strada del ritorno, quella del cuore (“Ritornate a me con tutto il cuore… laceratevi il cuore e non le vesti”) e poi le parole da rivolgergli (“Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio delle genti”). Il ritorno a Dio (la conversione) è possibile solo se coinvolge il cuore e non si esaurisce nei gesti che la esprimono, (come il digiuno, il pianto, i lamenti…”).
L’apostolo Paolo, con Timoteo, supplica i cristiani di Corinto (“vi supplichiamo in nome di Cristo”) di “lasciarsi riconciliare con Dio”). per questa riconciliazione Dio si impegnato fino al punto di “fare peccato” Gesù, il Figlio che non aveva mai commesso un peccato (“Colui che non aveva conosciuto peccato Dio lo fece peccato in nostro favore”). La supplica diventa esortazione a non sciupare la grazi di Dio (“non accogliete invano la grazia di Dio”).
Nel Vangelo (Mt 6,7-6.16-18) Gesù spiega cosa richiede il coinvolgimento del cuore in quelle pratiche che caratterizzano la vita cristiana, come la pratica della carità (l’elemosina), l’esercizio della preghiera e la pratica del digiuno (quest’ultima, riconosciamolo co onestà, praticamente abbandonata).
Gesù ci mette in guardia dal praticare l’elemosina, la preghiera e il digiuno, per quel riconoscimento pubblico che ci gratifica (la nostra ricompensa).
Nel suggerimento della segretezza dei gesti ritroviamo il legame tra il legame, raccomandato nel brano del profeta Gioele, tra i gesti della fede e il nostro cuore. Per Gesù, se vogliamo che i gesti che esprimono la nostra fede siano notati e apprezzati da Dio Padre che conosce il nostro cuore (“in segreto”), li dobbiamo salvaguardare ricerca di una “ricompensa” da parte degli altri (“essere visti, lodati”).
L’importanza di conservare il legame tra i gesti della fede e il cuore è ribadita anche dalle parole con cui il celebrante impone le ceneri sul nostro capo: “Convertitevi e credete al vangelo”.