Prima domenica di Avvento (27 novembre 2016)

La prima reazione che il testo evangelico provoca è quella di un disagio, legato all’incertezza di un incontro indicato come decisivo per la nostra vita (quando avverrà? Come si svolgerà?), disagio aggravato dal modo con cui Gesù sembra presentarsi a quell’incontro, come un ladro, il quale, non solo giunge senza preavviso, ma anche piomba nella nostra vita per derubarci.

Il disagio sollecita una domanda: il Figlio dell’uomo che viene e che ci disponiamo ad accogliere, è un ladro che ci colpisce, ci impoverisce la vita o un ospite che riempie la nostra casa?

La risposta è data dall’apostolo Paolo, il quale, nel passo delle lettera ai cristiani di Roma, proposta dalla liturgia di questa prima domenica di Avvento, parla di una “salvezza più vicina”, legata al “Signore Gesù Cristo” (13,11ss). Ma è anche il Signore stesso a sciogliere l’interrogativo con la rassicurante immagine proposta nel libro dell’Apocalisse: «Ecco, io sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Il Signore viene quindi non come un ladro che deruba, ma come un ospite che arricchisce, che salva la vita. Scrive S. Leone Magno: «Il Signore quindi viene quando visita, si ferma rivelandosi soavemente, chiama svegliando all’amore della sua gloria che manifesta suscitando un più ardente desiderio».

Dal vangelo giunge la segnalazione che dipende da noi il superamento del disagio. Se ci dedichiamo alle occupazioni della vita come facevano i contemporanei di Noè, concentrati esclusivamente in quello che vi accade oppure se ci lasciamo istruire esclusivamente da ciò che immediatamente persuade e offre (i desideri della carne), pensando in questo modo di provvedere in modo soddisfacente al nostro desiderio di vita, il Signore apparirà ai nostri occhi come un ladro che ci sorprende e ci deruba delle nostre cose. Se invece ci occuperemo della nostra vita, attendendo la salvezza che si avvicina, il Signore entrerà nella nostra casa senza scassinarla, come ospite gradito, a lunga atteso.

L’attesa del Signore costituisce il cuore della fede cristiana: il nome del cristiano è «colui che attende il Signore» (J. H. Newman). L’attesa del Signore non assomiglia (non dovrebbe assomigliare) a quella che caratterizza i “tempi morti” della nostra vita (come accade nelle tante sale di attesa). Ci deve far pensare il rilievo di uno scrittore, Ignazio Silone: «Mi sono stancato di cristiani che aspettano la venuta del loro Signore con la stessa indifferenza con cui si aspetta l’arrivo dell’autobus». È un’attesa invece che esprime (dovrebbe esprimere) quanto il termine stesso indica: ad-tendere, tendere verso…

L’attesa quindi fa riferimento a un’attività interiore, a un interesse; rappresenta la figura del desiderio che tiene desta la persona, la rende attenta, pronta. Per questo strettamente legata a essa sta la vigilanza, quell’«atteggiamento umano-spirituale di lucidità, di sobrietà, di attenzione alla storia, alla vita, all’oggi, agli altri; è passione per il Signore e rigetto degli idoli, è presenza a se stessi e attenzione alla presenza del Signore che viene incontro all’uomo in queste umanissime realtà» (L. Manicardi).

Nel tempo dell’Avvento siamo richiamati con insistenza a quello che rappresenta il cuore della vita cristiana: vivere attendendo il Signore che viene, vigilare perché la sua venuta non ci sorprenda come un ladro nella notte, ma ci allieti come quella dell’ospite a lungo atteso e finalmente accolto.

Il tempo dell’Avvento ci è donato ogni anno perché «infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo», il tempo in cui «dobbiamo pensare a quanto cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle che ancor più grandi farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare la sua prima venuta e desiderare molto la seconda» (Aelredo di Rievaux).

 

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