V domenica Tempo Ordinario (7 febbraio 2021)

Due situazioni problematiche: quella di Giobbe, di cui parla la prima lettura (Gb 7,1-4.6-7) e quella della suocera di Simone e degli ammalati di Cafarnao, di cui parla il vangelo (Mc 1,29-39).

Le considerazioni di Giobbe sono quelle di un uomo affranto: i suoi giorni “scorrono più veloci di una spola. Svaniscono senza un filo di speranza”. In questi giorni che scorrono velocemente e inesorabilmente, Giobbe non trova nulla che gli possa dare conforto (“senza un filo di speranza”): non il lavoro, che resta duro e per nulla gratificante; non la promessa di un salario, perché a differenza del mercenario, al quale è riconosciuto il salario, a Giobbe sono “toccati mesi di illusione” e assegnate “notti di affanno”; nemmeno la notte gli dà riposo, anzi appare lunga, estenuante («sono stanco di rigirarmi fino all’alba»). E infine, neppure l’invocazione a Dio («Ricordati che un soffio è la mia vita») sembra costituire motivo di speranza, perché subito dopo l’invocazione conclude: «il mio occhio non rivedrà più il bene».

Giobbe fa queste considerazioni in un momento particolare della sua vita: ha perso tutto. Lui, uomo ricco, non possiede più alcun bene; lui uomo fortunato e felice, per la bella famiglia che aveva costruito, ha perso i suoi figli; lui, uomo in salute, ora è colpito da una malattia che copre il suo corpo di piaghe.

Giobbe, inoltre, è rimasto solo ad affrontare questa situazione, perché le persone a lui più vicine – la moglie e gli amici – mostrano ostilità nei suoi confronti. La moglie gli rinfaccia l’inutilità della sua rettitudine («Rimani ancora saldo nella tua integrità?»), lo invita a prendere le distanze da Dio in cui aveva riposto la sua fiducia («maledici Dio») e gli augura la cosa peggiore che si può augurare a una persona («muori»). Gli amici, che sono venuti da lui per condividere la sua sofferenza, lo accusano di essere lui stesso la causa di tutti i suoi mali.

Nella casa di Simone e di Andrea la suocera del primo è bloccata a letto dalla febbre e in Cafarnao molti sono “afflitti da varie malattie” e devastati da “molti demoni”.

Gesù si trova di fronte un’umanità ferita, impossibilitata ad affrontare il male che affligge. Anche queste persone, che sono presentate a Gesù, vivono, al pari di Giobbe, “senza un filo di speranza”.

L’intervento di Gesù nella casa dei due fratelli, Simone e Andrea e a Cafarnao, rianima la speranza di queste persone, non solo perché ridà vigore ai loro corpi, ma anche perché li rimette in condizione di provvedere con fiducia (con speranza) alla loro esistenza e a quella dei loro familiari (come per la suocera di Simone. L’evangelista Marco annota che Gesù «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva»).

Quando la vita ci mette alla prova, se non abbiamo una speranza su cui contare, resistente alle prove, anche noi ci sentiamo come Giobbe, persone affrante, che si abbandonano a considerazioni tristi e sconsolate sulla vita. Quando ci sentiamo così, come persone “senza un filo di speranza”, anche la preghiera che rivolgiamo a Dio appare vuota, deludente.

Nella preghiera della Colletta abbiamo riconosciuto davanti al Signore che “unico fondamento alla nostra speranza è la grazia che viene da lui”. Ora la grazia che viene da Dio è Gesù. Lui è il fondamento affidabile della nostra speranza, perché è grazie a lui che i nostri giorni (anche i giorni tristi e preoccupanti della pandemia) non trascorrono “senza un filo di speranza”. Si tratta allora di invitarlo nelle nostre case, di parlargli delle “malattie”, nostre e di chi ci è caro, di portargli i molti malati di un’esistenza provata.

In questa domenica celebriamo al giornata per la vita. Quando parliamo della vita non pensiamo a un concetto, a un’idea astratta, ma alle persone, alle persone che iniziano l’avventura dell’esistenza nel grembo materno; alle persone che “date alla luce”, “venute al mondo”, cercano di costruire, nel tempo che scorre, un’esistenza bella, buona e felice, per sé e per gli altri; alle persone che, come Giobbe, si trovano a vivere situazioni che feriscono la loro esistenza, fino a offuscare ogni orizzonte di speranza; alle persone che, cariche di anni e di acciacchi, chiedono di non essere lasciate sole nell’ultimo tratto della loro esistenza sulla terra, nel mondo in cui un giorno sono entrate.

Papa Francesco nella sua ultima Enciclica (“Fratelli tutti”) ha ribadito che «ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente…Ognuno lo possiede, anche se è poco efficiente, anche se è nato e cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non diminuisce la sua immensa dignità come persona umana che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore del suo essere» (n 107).

L’azione di Gesù a Cafarnao e nei villaggi vicini a favore di “molti  colpiti da varie malattie” e le parole del Papa ci sollecitano a non acconsentire a una cultura che di fatto stabilisce le circostanze e le condizioni per le quali la vita di una persona merita di essere accolta e accompagnata; ci impegnano inoltre nella cura di ogni persona, in ogni situazione delle sua esistenza, soprattutto in quelle situazioni che mettono a dura prova la speranza, fino a renderla un esile filo che si spezza.