«Niente sarà più come prima». È un’affermazione che abbiamo sentito spesso nei giorni scorsi. Se sappiamo che niente sarà più come prima, non sappiamo però come sarà il mondo, come sarà la nostra vita, quando cesserà l’emergenza di questa pandemia. Possiamo sperare che, pur in mezzo a tante difficoltà di ogni genere e a segnali poco incoraggianti, le cose procedano meglio di prima, che migliori la qualità della vita.
Sappiamo che non basta sperare, bisogna agire, creare le condizioni di una vita migliore. D’altra parte sappiamo anche che la nostra azione ha bisogno di una speranza forte, capace di reggere l’urto di un’esistenza spesso messa alla prova. Per questo nella preghiera della Colletta abbiamo chiesto al Padre che la sua parola porti frutto nella nostra vita, perché la nostra speranza di “veder crescere l’umanità nuova” si ravvivi, resti salda.
E proprio la parola che abbiamo ascoltato può “ravvivare” la nostra speranza di un’esistenza futura migliore rispetto a quella che stiamo vivendo.
La parabola del grano buono e della zizzania raccontata da Gesù (Mt 13,24-30) consente di comprendere la nostra vita e l’azione di Dio nella storia degli uomini.
Nella storia degli uomini e nella nostra vicenda personale male e bene coabitano, tanto che, a volte, è difficile distinguerli con chiarezza e, quando questo è possibile, appare problematico e anche al limite delle nostre possibilità, prendere le distanze dal male. La confessione di Paolo in Rm 7,15-25 descrive bene questa situazione. L’Apostolo, dopo aver riconosciuto una confusione interiore («Non riesco a capire ciò che faccio. Infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto», v 15), ammette l’impossibilità da parte sua di compiere il bene («in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo» , v 18), per l’incidenza del male che appare invincibile («Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio», v 19ss).
La prima conclusione appare amara e rassegnata («Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?», v 24)»; non è però quella definitiva, perché lascia il posto a una seconda conclusione, più serena e piena di gratitudine («Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo», v 25).
La parabola racconta anche come Dio si muove nella storia degli uomini e nella nostra vita, dove male e bene coabitano e dove spesso si sperimenta l’insuperabilità del male. Dio ha pazienza nei confronti degli uomini, una pazienza che assume i tratti della mitezza, che non va interpretata come debolezza o impotenza, ma come volontà e capacità di dominare la propria potenza, di addomesticarla, di orientarla al nostro bene. Lo riconosce il testo del libro della Sapienza, proclamato nella prima lettura («La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono. Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere», 12,16-18).
Una mitezza che si esprime anche come rifiuto di ogni esclusione, di ogni giudizio sommario, senza scampo, come capacità di convivere con il negativo, come compassione, indulgenza («Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita», Sap 11,23-26).
La pazienza di Dio si esprime anche come attesa dei tempi dell’uomo («con tale modo di agire… hai dato ai tuoi figli la buona speranza che dopo i peccati, tu concedi il pentimento», 12,19).
Proprio la mitezza e la pazienza con cui Dio agisce a nostro favore ci offrono una preziosa istruzione su come trattarci a vicenda («il giusto deve amare gli uomini», v 19).
Chiediamo al Signore che facciamo conto sulla forza e sulla pazienza del suo amore nel nostro impegno a costruire un’esistenza nuova.