XXVI domenica Tempo Ordinario (26 settembre 2021)

La richiesta presentata a Dio nella preghiera iniziale («Continua a effondere su di noi la tua grazia, perché camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna») ci aiuta a comprendere la sua parola che è appena stata proclamata, una parola che presenta accenti duri (come l’invettiva di Giacomo contro i ricchi, Gc 5,1-6) e sconcertanti (come l’invito di Gesù, in Mc 9,43-48, all’automutilazione).

La richiesta a Dio di non lasciarci mancare la sua grazia è giustificata, oltre che dalla posta in gioco (la nostra vita), anche dalla quotidiana esperienza della nostra fatica e incapacità a far fronte alla seduzione del possedere sempre di più; dalla resistenza che opponiamo ai percorsi che ci garantiscono un’autentica libertà.

Nella preghiera operiamo un collegamento tra i beni promessi da Dio e la possibilità di godere una felicità senza alcun limite, compreso quello del tempo (“eterna”), la possibilità di un’esistenza compiuta. Quali sono i beni promessi? Non sono delle cose, ma Dio stesso, il suo amore: Dio offre a noi il suo amore che è garanzia sicura di una felicità piena e duratura.

Perché la promessa di Dio si compia, perché il dono del suo amore non vada perduto, c’è bisogno della nostra disponibilità: dobbiamo “camminare”, andare verso, tendere verso questi beni.

Le parole forti di Giacomo e quelle scioccanti di Gesù ci mettono in guardia da ciò che potrebbe bloccare il nostro cammino, sviarlo. L’apostolo Giacomo ci avverte che affidare la propria vita alla ricerca sfrenata dei piaceri e delle delizie, procurarsi una ricchezza che calpesta i diritti delle persone, ci porta da tutt’altra parte rispetto ai beni promessi da Dio, ci porta verso la rovina, perché questi beni che ci seducono sono precari (“le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalla tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine”).

Le parole scioccanti di Gesù su come superare lo “scandalo” non vanno intese alla lettera (Gesù non sollecita nessun autolesionismo), ma come una paradossale sollecitazione a saper valutare la decisività dell’offerta di Dio (il suo Regno, il suo amore) e a saper prendere decisioni coraggiose per non perdere il dono di Dio.

Per Gesù lo scandalo è tutto ciò che impedisce di “entrare nella vita”, di godere in pienezza la vita offerta da lui. Per questo lo scandalo rappresenta una realtà molto seria, drammatica; e per questo Gesù raccomanda di vegliare su se stessi, su i propri sensi (mano, piede, occhio). I tre sensi indicano simbolicamente l’insieme delle possibilità del corpo umano e costituiscono la porta d’ingresso del mondo nella nostra esistenza. Gesù non vuole indurci all’automutilazione fisica, ma impegnarci a una vigilanza che impedisca alle cose del mondo (le ricchezze, i tesori di cui parla l’apostolo Giacomo nella seconda lettura) di esercitare su di noi un fascino dispotico, che ostacola la nostra libertà nel cammino di adesione a Gesù, di accoglienza della sua offerta, che è quella di una vita piena.