XXXII domenica Tempo Ordinario (6 novembre 2022)

Nella preghiera della Colletta abbiamo rivolto la nostra preghiera al Dio dei viventi, riconoscendolo come colui che “fa risorgere coloro che si addormentano in lui”. Il riconoscimento è decisivo per la nostra fede, perché noi non poniamo la nostra speranza in un idolo inanimato, “opera delle mani dell’uomo” (cfr Sal 134,15), non è, però nemmeno scontato, come documentano i testi della parola di Dio, proclamata nella celebrazione dell’Eucaristia. In questi testi troviamo opinioni opposte riguardo a una possibile risurrezione delle persone dopo la morte. Per i 7 fratelli, di cui parla la prima lettura (2Mac 7,1-2.9-14) la risurrezione dopo la morte rappresenta una solida speranza, che li sostiene nelle torture, che provocheranno la morte, inflitte loro dal re Antioco per costringerli a “trasgredire la legge dei padri” («E’ preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»).

L’apostolo Paolo (cfr seconda lettura (2Ts 2, 16-3,5), pur non nominando esplicitamente la risurrezione, parla di “una consolazione eterna” e di “una buona speranza che conforti i vostri (dei cristiani i Tessalonica) cuori e li confermi in ogni opera di bene”).

Per i sadducei, invece (cfr vangelo Lc 20,27-38) non si dà alcuna risurrezione dopo la morte.

Il caso presentato da loro a Gesù tende a mettere in ridicolo la fede nella risurrezione dei morti e si basa sull’indiscussa autorità di Mosè, che obbligava un uomo a sposare la cognata vedova e senza figli per continuare la stirpe. Nel racconto dei Sadducei, qualora fosse ammessa la risurrezione, si verificherebbe il caso imbarazzante di una donna moglie di sette mariti.

La risposta di Gesù è articolata. Anzitutto rifiuta il pregiudizio che sta alla base del caso, cioè che la risurrezione sia semplicemente proiezione e prolungamento della vita terrena. Gesù mette in risalto la radicale diversità del futuro che Dio prepara per i giusti, chiamati a partecipare alla sua stessa vita come figli e, quindi, sottratti definitivamente alla minaccia della morte («non prendono  né moglie né marito: in fatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio»). Per questo sono liberi dalla preoccupazione di vincere la morte col matrimonio e la generazione. Nella seconda parte della risposta Gesù fa riferimento all’autorità di Mosè per affermare il fondamento della fede nel Dio dei padri, “Dio vivente”, che mantiene una relazione di comunione con i giusti anche oltre la morte, perché “tutti vivono per lui”.

Gesù mi offre una tra le più belle e consolanti presentazioni di Dio. Il Dio che lui conosce come Figlio, che vuole far conoscere agli uomini e a me, è il Dio dei vivi e il Dio che porta la vita, perché è il “Signore amante della vita” (Sap 1,13; 11,26), che strappa i suoi figli alla morte, che “elimina la morte per sempre” (Is 25,8a). Il nostro futuro allora non è lo sfacelo della morte, ma la comunione con questo Dio che ama e porta la vita, una comunione più forte della morte e garanzia di una vita piena e definitiva.

La mia esistenza è abitata da questa speranza, fondata sulla rivelazione di Gesù che mi parla di un Dio datore di vita?

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